Pacem in terris

L’inchino del Papa a Bartolomeo I, l’analisi del teologo Salvarani: così il processo ecumenico accelera

CREDO che l’inchino di Francesco a Bartolomeo I per riceverne la benedizione imprima una vistosa accelerazione al processo ecumenico. Mi piace pensare che il passaggio rispetto agli ultimi Pontefici sia dalla ‘pedagogia dei gesti’ di Giovanni Paolo II, che confermò la traiettoria avviata dal Vaticano II, al ‘dialogo delle culture’ di Benedetto XVI, che ha risposto così all’irrigidimento prodotto dal trionfo delle identità chiuse e dalla prospettiva di un conflitto di civiltà dopo l’11 settembre, fino all’odierna ‘teologia dei gesti’ del Papa venuto quasi dalla fine del mondo».
Dove vuole arrivare Bergoglio?
«La sensazione è che stia ridisegnando il paradigma dell’incontro fra i cristiani e i fedeli delle religioni altre, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto. In una parola: della teologia, quella della vita vissuta, non dei manuali».
Prende le mosse dal gesto più simbolico Brunetto Salvarani per esaminare, a mente fredda, il recente viaggio del Papa in Turchia. Docente di Missiologia e Teologia del dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, il professore guarda con fiducia alle prospettive ecumeniche tra Oriente e Occidente. In primo luogo, fra Roma e Costantinopoli, separate dal 1054.
A Instanbul, durante la Divina liturgia nella chiesa di San Giorgio, il Papa si è presentato come ‘vescovo di Roma’ e ha ricordato che la Chiesa capitolina ‘presiede nella carità’. A livello storico e teologico, quanto sono importanti queste due sottolineature per il recupero della piena comunione tra cattolici e ortodossi?
«Molto, va detto che, con l’elezione di Francesco, il popolo del dialogo, reduce da stagioni non certo entusiasmanti, segnate più da delusioni che da attese compiute, ha risollevato il capo ed è tornato a sperare. Con ragioni che sono emerse fin da subito, ovvero da quel saluto dalla loggia di San Pietro, il 13 marzo 2013. Penso alla scelta di Bergoglio del nome che rimandava evidentemente al Povero d’Assisi. Quel Francesco che ebbe il coraggio di confrontarsi con l’islam in maniera pacifica e aperta, al punto da recarsi, nel 1219, in piena epoca delle crociate, a Damietta (Egitto). Lui che al numero 16 della sua Regola non bollata, la più vicina al suo spirito originario, affidava l’efficacia del suo messaggio evangelico sine glossa prima di tutto alle opere e alla testimonianza del buon esempio e solo in un secondo tempo a un’esortazione verbale. Oltre al nome, poi, è apparsa chiara la scelta di Bergoglio di autodefinirsi preferibilmente vescovo di Roma piuttosto che Papa».
Modestia?
«Non si tratta di questo, o, peggio, di un bizantinismo: si è papi in quanto vescovi di Roma e non viceversa. È stato per primo Ignazio di Antiochia a dire che l’Urbe presiede nella carità tutte le chiese. Questa è un’opzione carica di significati anche dal punto di vista del dialogo ecumenico, perché la modalità con cui viene vissuto e percepito il primato petrino è ancora uno degli ostacoli più significativi all’unità».
Un problema evidenziato già da San Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995).
«Certamente, Wojtyla, al punto 96 di quel documento, era giunto a chiedere ai responsabili delle chiese e ai loro teologi di avviare sul tema ‘un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche’».
I teologi… . Sul volo di ritorno dalla Turchia, Francesco si è detto scettico sull’intesa fra ‘gli studiosi’ come condizione per il ritorno alla piena comunione. Il Santo Padre dà più valore all’ecumenismo spirituale (liturgia) e a quello del sangue (martiri). Concorda?
«Totalmente. Si tratta di un’annotazione per nulla secondaria l’affermare che in questo tempo, più che le argomentazioni sottili dei teologi, a smuovere l’attuale stagnazione possono essere gli abbracci. È la teologia dei gesti».                                                                                                                                                                   Sempre in aereo il Papa ha anche stigmatizzato l’uniatismo: Bergoglio che comunione ha in mente con gli ortodossi?
«Credo che si vada nella direzione della posizione espressa dallo storico e teologo luterano francese Oscar Cullmann, morto quasi centenario nel 1999. Per lui le chiese sono portatrici di carismi differenti e la loro diversità non può essere considerata un intralcio all’unità. Per questo è possibile applicare ai loro rapporti quanto sostiene Paolo sulla comunione delle diverse membra dell’unico corpo (1 Cor 12, 4-31): in quel passo biblico l’apostolo mostra chiaramente che lo Spirito santo crea l’unità non soltanto malgrado, bensì mediante la diversità».
Ma un domani il ritorno all’unità fra Roma e Costantinopoli automaticamente determinerà il ricongiungimento con l’intera ortodossia, Mosca in testa?
«La partita è complicata. Ed è difficile dire se e quanto l’accelerazione impressa al cammino ecumenico da Francesco abbia contribuito alla storica decisione delle chiese ortodosse di fissare finalmente la data dell’atteso concilio panortodosso, in agenda nel 2016. Un Santo e Grande Concilio, com’è stato definito dagli organizzatori».
Fra Mosca e Costantinopoli tira ancora una brutta aria?
«Per capire l’odierno contrasto fra Costantinopoli e Mosca, occorre ricordare che quello che lungo i secoli è stato un potente patriarcato, Costantinopoli, il cui primato d’onore è stato indiscusso, ora conta in madrepatria appena poche migliaia di fedeli ed è costantemente contestato - soprattutto dopo la fine dell’impero sovietico - da Mosca, saldamente guidata dal patriarca Kirill e sempre più calata nei panni storici di Terza Roma. Con qualche beneficio d’inventario, per comodità, si potrebbe dire che nello schieramento favorevole a Costantinopoli convergono, oltre agli antichi patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, Atene, Sofia, Belgrado e Tirana. Di contro, sono vicini a Mosca il patriarcato di Georgia, la Chiesa polacca, quella ceca e quella romena. Fra l’altro il conflitto tra Mosca e Costantinopoli venne utilizzato dall’Occidente negli anni della Guerra fredda per contenere l’influenza sulle varie chiese autocefale da parte di quella russa, ritenuta, non senza ragioni, collegata a doppio filo con i temibili servizi segreti del Kgb».
Quali sono i motivi di conflitto odierni?
«Innanzitutto la giurisdizione sulla Chiesa estone. Il momento più critico si ebbe quando Mosca, all'epoca retta da Alessio II, smise di nominare il patriarca di Costantinopoli nelle sue liturgie in reazione alla vicinanza di Bartolomeo verso gli ortodossi estoni. Poi c'è la questione dei fedeli in diaspora che vivono negli Stati Uniti. Anche la delicata situazione ucraina di quest’ultimo periodo rappresenta un forte potenziale di disaccordo. Sono tutti temi delicati. Il ventilato incontro fra papa Francesco e il patriarca Kirill, tra l'altro non riuscito ai loro predecessori, Giovanni Paolo II e Alessio II, potrebbe portare qualche beneficio».

Giovanni Panettiere

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