Pacem in terris

Cristiani perseguitati, la proposta del vescovo a Tripoli: ‘Tentiamo un dialogo con l’Isis’

 

 CRISTIANI PERSEGUITATI, IL VESCOVO A TRIPOLI: L'OCCIDENTE SE NE LAVA LE MANI
 Articolo pubblicato sul Qn (il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), edizione del 7 aprile 2015

Giovanni Panettiere
«HO IL DOVERE di stare accanto alla comunità cristiana di Tripoli. Non è che se adesso c’è pericolo, io me ne posso andare, posso abbandonare questa gente, lasciarla al suo destino. Resterò qui fino alla fine».
Monsignor Martinelli anche fino al martirio per mano dei jihadisti?
«Questa è un’ipotesi possibile, lo so bene. Se arriverà, l’accetterò. Io non scappo».
Anche ieri papa Francesco ha spronato la comunità internazionale a non essere «inerte e muta» di fronte alla persecuzione dei cristiani.
«Il Pontefice dice quello che si dovrebbe fare. Come Occidente non possiamo lavarci le mani di fronte a questa immane tragedia».
In una Libia sempre più balcanizzata, con il governo riconosciuto dalla comunità internazionale in esilio a Tobruk, in mezzo la bandiera nera dell’Isis, issata a Sirte e a Derna, e a Tripoli l’esecutivo islamista, il vicario apostolico di quella che un tempo era la capitale dell’impero di Gheddafi ostenta sicurezza. O almeno ci prova monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, 73 anni di cui trenta spesi in prima linea al servizio della Chiesa di Libia. Non lo dice, ma il Papa deve aver pensato anche a lui, quando alla via Crucis ha ricordato i fedeli di Gesù perseguitati «sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice».
Lei ha visto forse qualcuno gridare ‘Je suis Kenya’ dopo il massacro di Garissa?
«Certo che no. Un po’ perché si trattava di vittime africane e un po’ perché la maggiore parte dei caduti era cristiani. La diplomazia internazionale dovrebbe interessarsi di più di quello che succede in Africa... Ma questa è una vecchia storia».
La solita indifferenza.
«Il problema è che in ballo ci sono troppe responsabilità politiche ed economiche che noi occidentali non vogliamo affrontare».
A che cosa pensa?
«Al traffico di armi che foraggia i fondamentalisti islamici in giro per il mondo. Questa gente come si procura fucili e munizioni? Anche noi abbiamo le nostre colpe».
Come ha trascorso la Pasqua a Tripoli?
«Per fortuna tranquillamente, ero insieme con i cristiani della città».
Quanti siete rimasti?
«Con me ci sono 4-5mila filippini».
Non avete paura ora che il Califfato islamico ha preso piede anche in Libia?
«Qui la situazione è pacifica, poi sappiamo bene che tutto può succedere. Ma io non me ne vado».
Qualche giorno fa il Parlamento di Tripoli ha sfiduciato il premier Omar Hassi: è un passo avanti verso un accordo con ‘i laici’ di Tobruk?
«Potrebbe anche essere. Comunque io non sono un politico, sono un vescovo. E da uomo di Chiesa quel che mi preme è che si trovi la maniera per siglare un’intesa funzionale all’insediamento di un governo di unità nazionale».
Lei è fiducioso?
«Sì, un accordo è possibile».
Anche perché altrimenti tra i due litiganti il terzo gode... Solo che si chiama Isis.
«Quelle sono persone che non hanno idee chiare. L’unica cosa che possono fare è dialogare».
Trattare con il Califfato?
«Se si trova il modo...».

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