Anatema del Papa dall’Africa: ‘Corruzione anche in Vaticano’
ANATEMA DEL PAPA DALL'AFRICA: 'CORRUZIONE ANCHE IN VATICANO'
Articolo pubblicato sul Qn (il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), edizione del 28 novembre 2015
Giovanni Panettiere
«ANCHE in Vaticano ci sono casi di corruzione. Ci entra dentro come lo zucchero, è dolce, ci piace, è facile. E poi finiamo male, facciamo una brutta fine. Finiamo diabetici». Si affida al suo proverbiale linguaggio immaginifico papa Francesco per denunciare una delle malattie della sua Chiesa ‘ospedale da campo’, così contagiosa da colpire anche i vertici. Ad ascoltarlo, nella sua ultima giornata in Kenya, oltre cinquantamila giovani assiepati sulle tribune dello stadio Kasarani di Nairobi.
Molti indossano le divise delle loro scuole, quasi tutti stringono tra le mani le bandierine gialle del Vaticano o il tricolore nazionale, nero, rosso, verde. L’ingresso di Francesco sulla papamobile scoperta, annunciato con l’altoparlante dagli speaker in visibilio, evoca quello di una rockstar. Urla, canti, ola, lo stadio esplode in un unisono e irrefrenabile karibu – benvenuto – prima di zittirsi, composto, per ascoltare le parole del vescovo di Roma. Più un baba – papà – che un Pontefice.
CORRUZIONE, terrorismo e tribalismo sono i cardini del suo discorso che prende il là dalle domande dei ragazzi. Ancora una volta Bergoglio scarta il testo scritto e improvvisa. «Quando accettiamo una tangente – scandisce nel Paese in cui il governo è appena uscito da un ennesimo rimpasto dopo un caso di bustarelle –, distruggiamo il nostro cuore. Per favore, non prendeteci gusto con questo zucchero che si chiama corruzione. Il suo non è un cammino di vita, ma di morte». Bergoglio invoca lavoro e istruzione per evitare che nei giovani «nasca l’idea di lasciarsi reclutare» dai terroristi.
Non dimentica l’affondo contro il tribalismo che, ricorda. «vuol dire tenere le mani nascoste dietro di noi e avere una pietra in ogni mano per lanciarla contro l’altro». Ai giovani dello stadio chiede di formare una catena umana, alla quale partecipa lui stesso, per dimostrare che «tutti siamo un’unica nazione»: sarà una delle istantanee simbolo del suo viaggio in Africa. Un’altra è sicuramente quella della papamobile bianca che attraversa la lingua rossa di argilla di Kangemi, una delle bidonville che circondano la capitale kenyota e dove vivono ammassate in baracche centomila persone.
FRANCESCO arriva di buon mattino. Anche qui, fuori dalla chiesa di San Jose Obrero retta dai gesuiti, la gente balla e canta, nonostante non abbia niente o quasi: manca l’elettricità, le acque reflue scorrono ai bordi delle strade, coperte da assi di legno sconnessi. L’odore è pungente. Un po’ come le villa miseria di Buenos Aires visitate dall’allora cardinale Bergoglio. «Qui mi sento a casa», rompe il ghiaccio il Papa. Bacia i bambini, ascolta le suore della Caritas, che denunciano sgomberi forzati, insicurezza e il dramma dell’alcolismo che non risparmia nemmeno i più piccoli. Quando prende la parola fa suo il disagio e l’emarginazione della bidonville: «Riconoscere le manifestazioni di vita buona che crescono qui non significa ignorare le ferite provocate dalle minoranze che concentrano il potere, la ricchezza e sperperano egoisticamente mentre la crescente maggioranza deve rifugiarsi in periferie abbandonate». Al governo chiede acqua, terra, casa e lavoro per i poveri. Ai vescovi di «prendere iniziativa contro le tante ingiustizie».
Prima di lasciare Kangemi consegna una busta con un’offerta. Da ieri il Papa è in Uganda, un paese che ha da subito lodato per il suo impegno a favore dei migranti: ««Da come accogliamo i profughi si misura la nostra umanità». Da ieri il mondo, invece, conosce Kangemi. Lo slum e le ingiustizie che lo abitano.