IL NOSTRO è un mestiere crudele, in certi casi. Quando ti arrivano all’improvviso notizie che ti colpiscono alla nuca e ti fanno sentire tutto il peso del tempo che è passato senza fare sconti. Lo dico in anticipo, questo sarà un post tribolato, e anche di interesse molto privato. Ho voluto aspettare un giorno per far decantare le emozioni e capire bene che cosa sentivo, prima di scriverlo.

La prima botta me l’ha data un messaggio pubblicato su Facebook da Mike Dodd, l’ex ct del beach volley azzurro. Un messaggio nel quale annunciava, senza poter fornire molti altri dettagli, la morte di Jonny The Steve, aggiungendo solo: “Jon era un amico caro e leale per me, aveva un cuore di leone ed era stato un campione come giocatore, allenatore e maestro del gioco. Possa riposare in pace”.
Ho fatto le opportune verifiche, e ho avuto la conferma di quello che temevo: si tratta di Jon Stevenson, ex alzatore visto in Italia soltanto per una stagione, nel 1984-85, a Sassuolo nella Virtus che provò senza successo a tenere in vita la tradizione dell’Edilcuoghi. Quell’anno vidi tutte le sconfitte interne della mia squadra del cuore, da spettatore, nella palestra di San Michele. La Virtus finì a zero punti. Stevenson me lo ricordo benissimo, anche se non era un mio idolo particolare: era un alzatore piccolo dalle mani d’acciaio, arrivato dal beach volley, e solo dopo ho capito che questo era il motivo della sua alzata così arrotondata, con le dita che frullavano intorno alla palla. E solo dopo qualche altro anno ho saputo che il suo ritornello era ‘Fuck Mastiga’ (era il soprannome del presidente della Virtus), lo ripeteva ogni volta che doveva guidare sotto la pioggia, perché nella macchina che la società gli aveva fornito il tergicristallo era rotto e lui doveva spazzare via l’acqua con le mani, giuro.

L’anno scorso il destino mi aveva rimesso in contatto con questo ex atleta che comunque aveva scaldato il mio cuore quattordicenne di tifoso, provocando la compassione (nel senso vero del termine) riservata a chi è costretto ad andare al massacro contro un destino inevitabile, in questo caso per fortuna solo sportivo, e lo fa con dignità. Ma il peggio doveva ancora venire, in tutti i sensi. Perché senza voler scomodare le madeleine di Proust, avrei scoperto poco dopo che il biscotto del mio ricordo era avvelenato, altro che dolce.

L’anno scorso, dicevo, Dodd mi racconta che uno dei suoi assistenti si chiama Jon Stevenson. Quel Jon, gli chiedo? Sì, e mi mette in contatto con lui. Ci siamo sentiti via mail e facebook, lui rideva nel sentire qualcuno che gli ricordava quei tempi e sapeva del ‘Fuck Mastiga’.

Ieri mi dicono che Jon è morto. Mentre cerco conferme, arriva il vero colpo basso, la pugnalata che rompe la dolcezza della memoria. Scopro navigando nei siti americani che qualche settimana fa Stevenson era stato cacciato dalla scuola di Cal Poly, dove aveva allenato squadre giovanili femminili per anni, perché accusato di molestie sessuali alle giocatrici. Minorenni. Aveva negoziato un accordo: in cambio dello stipendio che mancava alla fine del contratto, si era impegnato a non contattare più nessuna giocatrice, e ad andare a svuotare il suo ufficio mentre la squadra era in trasferta. Forse lo scandalo che ne è seguito è la causa della morte. Non sono stati forniti dettagli, ma amici comuni ieri mi dicevano che temevano da tempo che Jon si suicidasse, perché non si era più ripreso. Non che lo compianga per questo, ci mancherebbe. Sono garantista, ma nell’attesa, tra il mostro e le vittime, sto sempre dalla parte delle vittime.

Però così non è giusto, perché il disgusto si sovrappone al dolore e sporca tutto il ricordo. Come ha fatto Jon con la sua stessa storia, che negli Stati Uniti è stata quella di un grandissimo giocatore di beach volley capace di vincere 21 titoli, di essere socio fondatore dell’Avp e poi di diventarne direttore esecutivo. Vorrei con tutto me stesso potermi rifugiare nella consolazione di un ricordo pulito, magari usando un altro messaggio che Mike Dodd ha postato stamattina e che riguarda il beach volley azzurro: “Ho appena finito di parlare via computer con Daniele Lupo, che a 21 anni si è qualificato per le Olimpiadi e un mese fa è salito per la prima volta sul podio nel Grand Slam di Pechino. Mi darà la sua medaglia d’argento di Pechino perché vuole che la metta vicino a Jonny the Steve, per ringraziarlo e omaggiarlo. Questo mostra l’impatto che Jon ha avuto su tanti giocatori”.
Avrei voluto ricordarlo solo così, ma l’altra storia me lo impedisce. Sorry, Jon.