Cambiamo sport per un giorno, anche se la rete c’è pure qui. Questa intervista a Simone Bolelli, dopo la vittoria nell’Australian Open in doppio con Fabio Fognini, è stata pubblicata oggi su Qs. A seguire, l’intervista alla famiglia Bolelli, apparsa sulle pagine del Resto del Carlino, edizione di Bologna.

LA STAFFETTA della vittoria è nata improvvisando in allenamento, dove le sorelle d’Italia hanno passato un po’ del loro tocco magico ai fratelli d’Italia. Bolelli e Fognini hanno iniziato a vincere lo Slam palleggiando con chi sapeva già come si fa: «Penso che Sara Errani e Roberta Vinci ci abbiano portato fortuna, qua a Melbourne non c’erano abbastanza campi liberi e ci è capitato di giocare qualche minuto con loro. E’ andata bene», racconta Simone Bolelli. Calmo come uno che ha appena chiuso l’ufficio, non completato un anno magico in cui ha scalato oltre duecento posizioni nel ranking mondiale, dopo aver perso tutto il 2013 per l’operazione al polso.

Bolelli, un anno fa in Australia rientrava, facendo solo il doppio. Stavolta è andata meglio.
«Credo che la mia carriera inizi ora. Ho sofferto molto, ho passato periodi molto brutti. Qui si chiude un cerchio e comincia la vita sportiva del nuovo Bolelli. Più solido, più forte come persona, che cerca di completarsi. Credo di aver ancora 4-5 anni davanti a buon livello».
Intanto, lei e Fognini siete come Sirola e Pietrangeli, i soli a vincere uno Slam prima di voi.
«Ci fa un grande piacere, a me e Fabio sta molto a cuore tenere alto l’onore dell’Italia, in Coppa Davis diamo sempre il massimo. Il nostro affiatamento è dovuto soprattutto alle difficoltà che abbiamo superato giocando per l’Italia. Per ragioni di età non ho visto giocare Sirola e Pietrangeli, ma è bello essere lì con loro».
A chi dedica questa vittoria?
«Al centro tecnico federale di Tirrenia, al tecnico Eduardo Infantino, ai fisioterapisti che mi hanno seguito, Carlo Ragazzi e Giancarlo Petrazzuolo. A tutti coloro che mi sono stati vicini quando andava male. Ovviamente, anche a mia moglie, alla mia famiglia, e un po’ a me stesso».
Che cosa ha pensato su quell’ultimo punto?
«Prima, soltanto a servire a 200 all’ora. Dopo mi sono detto: abbiamo vinto uno Slam. E’ stata una giornata lunga, giocare per ultimi e così tardi è snervante, e infatti io e Fabio eravamo nervosi. Ma dopo due settimane così volevamo completare l’opera a tutti i costi. Non ci aspettavamo di arrivare così lontano».
Ha detto che con i soldi della vincita avrebbe cambiato macchina.
«A questo punto la mia Ford Kuga può andare in pensione. Mi piacerebbe una Bmw, vediamo».
Bolelli, lei è troppo calmo. Ma una follia non la vogliamo fare, per un’impresa così?
«Penso di non rendermi ancora conto di quello che significhi davvero aver vinto uno Slam. Quando ci hanno fatto parlare al microfono, dopo la premiazione, io e Fabio volevamo entrambi arrivare per primi. Ho vinto io».
Perché sapeva già che lui voleva dire una parolaccia?
«No, era solo una gara tra noi. Scherzi a parte, siamo davvero amici anche fuori dal campo, il segreto è quello. Siamo capaci di aiutarci nelle difficoltà, nel doppio capita spesso che uno giochi meglio dell’altro. Noi siamo affiatati, credo che possiamo dare altre soddisfazioni all’Italia».
Si farà un altro tatuaggio?
«No, ne ho già tre. Su un braccio ho la S gotica del mio nome e le iniziali di mia moglie con il simbolo del destino e dell’amore, dietro il collo le iniziali di mio padre Daniele, di mia sorella Simona e di mia madre Stefania. Per ora bastano quelli».

E questa è l’intervista ai familiari di Simone Bolelli.

IL LETTO di Simone è ancora lì, la cameretta intatta, la prima racchetta appesa al muro. Come se il tempo avesse congelato il quadro a quando il bambino sognava di diventare un campione. Oggi il bambino ha 29 anni, ha vinto l’Australian Open ed è entrato nella storia del tennis.
Ieri a casa Bolelli, alla periferia di Budrio, tutti i sacrifici degli ultimi 14 anni hanno preso un senso e un colore diverso. Anche se la festa è stata contenuta, perché la famiglia non è abituata agli eccessi, si capisce subito da chi ha preso Simone.
«Lui l’ha sempre saputo, che ci sarebbe arrivato. Lo sapeva già a quindici anni, quando lasciò casa per andare a Bergamo, all’Academy del maestro Luca Ronzoni, e io non ero mica tanto d’accordo, sa?». Mamma Stefania, ragioniera, 57 anni, quei momenti difficili se li ricorda tutti.
Vedere un figlio partire così giovane per inseguire una speranza non è stato facile, «anche se Simo è sempre stato un ragazzo responsabile. E poi lui era sicuro che sarebbe diventato un professionista. Anche durante i brutti momenti degli infortuni, non ha mai dubitato per un attimo che sarebbe tornato. Aveva ragione».
PAPÀ DANIELE, 60 anni, lavora nella pubblicità dopo aver fatto a lungo l’odontotecnico. Giocava a calcio con gli amici, ha appoggiato le scelte del figlio senza spingerlo: «Gli ho solo detto che a vent’anni avrebbe dovuto essere intorno alla posizione 120 al mondo, e lui arrivò al 125. Altrimenti avremmo dovuto mollare, perché i sacrifici sono stati tanti. Economici, ma anche organizzativi: vedevamo Simone nei weekend, io lo andavo a prendere il venerdì, mia moglie partiva alle 4,30 del lunedì con la sua Focus per riportarlo a Bergamo, lui finiva di dormire in macchina. Adesso lo vediamo anche meno, una volta ogni due mesi se va bene. Ma lui è contento, e a noi va bene». È giusto raccontarlo, a chi crede che i tennisti facciano una vita privilegiata: dietro le copertine di oggi ci sono anche i viaggi assonnati di ieri, nella nebbia prima dell’alba.
A Budrio, Simone non capita quasi più. Il letto della cameretta è intatto da anni, lui vive a Montecarlo, quando è in Italia si allena a Tirrenia, ma è quasi sempre in giro per il mondo. La moglie Ximena Fleitas, uruguaiana, modella, piace a mamma Stefania e alla sorella Simona «perché è una persona molto discreta». A Budrio ci sono ancora gli amici, quelli dei tempi in cui frequentava le medie Filopanti e l’istituto per ragionieri Renzi (le elementari le ha fatte a Bologna, alle Tempesta).
A Budrio lo aspetta sempre il suo cagnolino, un chihuahua molto affettuoso. Si chiama Chiqui, come il soprannome della Errani e della Vinci, e quasi come i Chicchi, il nomignolo che si sono dati Bolelli e Fognini. Perché magari anche il destino gioca a tennis.