Avverto subito: questo post NON E’ sulla pallavolo, neanche in modo molto tangenziale. Sentivo l’esigenza di scrivere su due casi che hanno coinvolto i social network e che mi hanno colpito più di altri.

Il primo ci riguarda da vicino, perché ha portato alla sospensione e poi al reintegro del direttore della testata per cui lavoro, il QS: parlo del titolo sulle ‘cicciottelle‘, le tiratrici con l’arco azzurre che hanno fatto le Olimpiadi. Senza ricapitolare tutto, fino alla pace risolutiva tra il direttore e le azzurre, e chiarendo comunque che il titolo per me era sbagliato e le scuse successive sono state controproducenti, volevo parlare del punto, che secondo me è un altro: la libertà presunta di chi si esprime sui social network.

Senza i social, tutta la vicenda non avrebbe preso i contorni e le dimensioni che ha preso. Senza l’indignazione, giustificata nel merito, ma spesso non nei modi (perché in tanti ci hanno augurato di morire, tutti indistintamente, noi che lavoriamo per questo giornale, e mi riesce difficile capire il collegamento), senza la reazione verbalmente violenta soprattutto di chi ha voluto commentare su Facebook (su twitter sono più pacati, di solito), dopo mezza giornata quasi tutti si sarebbero dimenticati di un titolo infelice.

Senza i social, probabilmente non saremmo mai arrivati neanche al suicidio di Tiziana Cantone, e al diluvio di commenti sul web che l’hanno seguito (compreso questo, per carità). Uno dei più lunghi, e non sempre condivisibile a mio parere, l’ha fatto Matteo Lenardon qui. Un altro commento, più essenziale, l’ha scritto su facebook un amico, Luca Barozzini, al quale ho chiesto il permesso di citarlo (il commento). Luca ha scritto

“Una giovane donna si è suicidata.
Siamo tutti scandalizzati, costernati, distrutti.
E diamo la colpa a tutti noi (che è come dire che la colpa non è di nessuno), o a un’entità astratta (la rete o la società, che è come dire che la colpa non è di nessuno), o a chi ha condiviso per primo quel video (che è come dire che la colpa è di uno solo e di nessun altro).
E, per farlo, continuiamo a pubblicare nome e cognome di quella ragazza, la foto del suo volto, la frase che l’ha resa “celebre”, la città in cui è vissuta, i dettagli sulla sua vita, sulla sua morte, sul suo funerale, sulla sua famiglia.
Voyeur della vita, voyeur della morte.”

L’ultima frase è la chiave del ragionamento, secondo me. Da quando abbiamo smesso di ‘vivere’, e ci siamo messi a guardare su uno schermo a pochi o tanti pollici ‘le vite degli altri’, siamo diventati tutti giudici, tutti tuttologi, tutti esperti. Tutti giornalisti, perché tanto ‘i giornalisti italiani sono i peggiori del mondo’ (e, semplicemente, non è vero). Tutti sicuri di avere la verità in tasca, dalle scie chimiche in giù, e spesso tutti pronti a credere alle bufale più assurde, basta che siano sul web. Tutti sicuri che al resto del mondo interessi se stiamo mangiando un gelato, andando al cinema, o come la pensiamo sui temi più importanti della galassia (ce lo chiederebbero, se gli importasse, credo).

Il web, soprattutto quello 2.0 che ha aperto le porte a tutti indiscriminatamente, non è male e non è bene, in astratto e in sostanza. Ma è falsamente democratico, un’illusione di partecipazione, un simulacro di libertà. Una sputacchiera dove in tanti sfogano un odio che deve avere sicuramente un’origine diversa, ma il monitor è una finestra a senso unico che protegge i leoni da tastiera. Lì è più facile farlo, come quando gli hooligans andavano allo stadio per picchiarsi, non importava con chi. E non importa neanche sforzarsi di provare a ragionare, la maggior parte delle volte, in un paese fondato sul tifo che invece pene severissime ed esemplari, ovviamente solo quando toccano agli altri.

Il web (entità intangibile, come lo era ‘la gente’ quando veniva usata per giustificare, linciare, processare, fare inchieste) non si può chiudere, ormai, perché la sua struttura ‘rizomatica’ non lo permette neanche a volerlo fare: è inutile anche discuterne, è stato inventato così apposta. Per questo non credo nemmeno nella possibilità di intervenire per legge, in casi simili.

Alla fine, dipende sempre da noi, l’unico cosmo su cui possiamo agire è quello ‘micro’ dei nostri comportamenti quotidiani. I miei genitori mi hanno insegnato il valore della responsabilità, per fortuna. Lo hanno fatto con l’esempio. Mi hanno insegnato che il processo mentale, umanissimo, di scaricare le colpe sugli altri non mi avrebbe fatto crescere come persona. Spero di riuscire a trasmettere a mio figlio la stessa consapevolezza, a fargli capire che il mondo sempre più social là fuori è pieno di gente che sembra impegnarsi a mostrare il peggio, ma ci sono anche tanti ‘buoni’. Spero di avere l’energia e gli strumenti giusti per affiancarlo quando comincerà a scoprire (sarà inevitabile) questo mondo così estremo. E soprattutto spero che lui abbia la forza di distinguere il bene e il male, di decidere e sbagliare in proprio, non perché l’ha ‘detto il web’.

Mi dico buona fortuna da solo, temo che servirà.