Dalla vita condensata in poche foto di ‘Sideways’ all’esistenza dilatata tra rotaie e immense distese di campi in ‘Nebraska’. Nessuno può sbagliarsi, nemmeno un abitante di Marte: il film è di Alexander Payne.

Nei pregi, molti. Nei difetti, pochi. ‘Nebraska’ è l’elogio della semplicità e al tempo stesso è una profonda riflessione sulle opportunità perdute e sulle radici. E’ una pellicola brulla come lo Stato dal quale prende il titolo. Niente doveva essere aggiunto, nulla doveva essere tolto. Payne si scrolla di dosso la confezione lussuosa di ‘The Descendants’ e torna al suo grande amore: l’America rurale dov’è nato. Il viaggio padre-figlio tra le rughe del passato e attraverso la stupidità di certo parentado non finisce. Anzi, viene inghiottito da una stupenda Provincia in bianco e nero.

Anche per questo il regista di Omaha consegna alla notte degli Oscar un grande concorrente. Soprattutto non delude i fan. Il suo cinema è fin troppo riconoscibile e ci piace così. Leggerezza e commozione. Senza un filo di dejà-vu, se non quello che può rimbalzare direttamente dal suo ‘About Schmidt’. Bruce Dern non è Jack Nicholson ed è meglio così: la sua recitazione in trance, fatta di sguardi lunghissimi e pensieri che sembrano passeggiare davanti allo schermo, è così intensa che verrebbe voglia di sapere di più sul passato del suo personaggio. Non ci bastano i racconti frammentari della moglie nel cimitero, non ci basta nemmeno il delizioso ricordo della sua ex fiamma diventata giornalista del Paese. Tutto acquista un interesse nascosto in ‘Nebraska’. Abbiamo vinto alla lotteria? Assolutamente no: siamo semplicemente entrati in quel granaio di Hawthorne a riprenderci il nostro compressore. Abbiamo bevuto? Ma quando mai.