io sto con la sposa
Reggio Emilia, 14 luglio 2015 – «Perché è proprio dove c’è tanta morte che trovi tanta vita». Nelle orecchie il racconto dei massacri, davanti una donna vestita di bianco, guance rigate dalle lacrime. Occhi profondi, ficcati dritto nell’anima. Lì in fondo, dove non si può mentire. La platea sussulta. «Il cielo è di tutti, non ha frontiere». Ed è proprio così.
Oltre trecento città, 25 Paesi, 150mila spettatori. Non si ferma il cammino di ‘Io sto con la sposa’, il docu-film che ha spiazzato ed emozionato il mondo intero con le immagini del viaggio di cinque profughi siriani sbarcati a Lampedusa. Un viaggio attraverso l’Europa, verso la vita. Niente bagagli; in tasca solo il sogno della Svezia, della libertà.
E allora via con l’idea di inscenare un corteo nuziale, con tanto di invitati, per mascherare l’impresa. Dall’Italia sceglieranno di aggirare la frontiera, arrampicandosi su per la montagna, nell’antica via dei contrabbandieri sopra Ventimiglia. Una scelta di memoria. Un passaggio nel buco di una rete, un varco nella storia. Uno squarcio, mai stato così attuale. Così vero.
Poi  le dogane filano lisce, veloci. In una sequenza incredibile: Francia, Germania, Lussemburgo, Danimarca. Tutto vero. Un’operazione «dal basso», finanziata con il crowdfounding di quasi tremila persone (centomila euro raccolti).
 
Non un diario, ma una scelta di verità politica schierata e partigiana, lo dicono loro. Scelta che per i tre registi (Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry) poteva finire in una condanna a 15 anni di galera per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma niente. Solo applausi, abbracci, commozione.
Del Grande – nato a Lucca, di formazione bolognese e residente a Milano – è uno di loro. Reporter di guerra, ha 33 anni, una compagna, due figli, tre libri all’attivo e un blog di successo. Un curriculm umano da farti sentire piccolo; da farti venire voglia di mollare tutto e partire.
Il suo portale si chiama Fortress Europe, lì raccoglie e cataloga tutti gli eventi riguardanti le morti e i naufragi dei migranti africani nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Il più grande censimento che esista, dal 1988 a oggi.
 Gabriele, come nasce questa visionaria follia?
«Due anni fa io e due amici eravamo seduti a un tavolino della stazione centrale di Milano, parlavamo arabo. Un ragazzo palestinese ci ha avvicinati chiedendoci quale fosse il binario per la Svezia. Non capivamo. Fino a che non ci ha spiegato che lui era uno dei pochi sopravvissuti al naufragio dell’11 ottobre 2013. Furono 268 i morti in quell’occasione. Abdallah Salam, studente di Aleppo, era riuscito a scappare e non farsi prendere le impronte a Lampedusa. Voleva andarsene dall’Italia e arrivare nei Paesi scandinavi. Non potevamo pensare che dopo tutto quel dolore, potesse tornare nelle mani di un contrabbandiere. Così è stata partorita l’idea. Dopo due settimane eravamo in viaggio. È lui lo sposo del nostro film».
La vostra opera ha aperto la strada all’idea che si possa fare arte, in Italia, attraverso il crowdfounding. Vi aspettavate una risposta del genere?
«Inizialmente abbiamo provato a far finanziare il film attraverso i canali tradizionali, ma non ci siamo riusciti. Così è nata la campagna online di raccolta fondi. La storia è piaciuta, è inutile dirlo… Un finto matrimonio, profughi sbarcati a Lampedusa, il rischio penale che correvamo. Volevamo arrivare a 75mila euro per pagare la troupe. Ne hanno mandati centomila».
Tre premi al 61° Festival del cinema di Venezia, un Nastro d’Argento, la nomination come finalista al David di Donatello per il miglior documentario ed ora il Leone d’Oro del Festival del Cinema Arabo di Orano in Algeria. 
«Sì. È potente. Ed è l’ennesimo riconoscimento al valore artistico del nostro film e al valore politico del nostro atto di disobbedienza civile. Ora però sarebbe il momento che la nostra politica battesse un colpo e dicesse da che parte sta. Lo chiedono i nostri tremila finanziatori e tutti gli spettatori che hanno visto il film in Italia e in altri 25 Paesi del mondo».
La pellicola, però, di recente è stata accolta al Parlamento Europeo. Un segnale che qualcosa si stia muovendo?
«È stato l’unico. Dal naufragio di Lampedusa dell’ottobre 2013 da cui si salvò il nostro ‘sposo’ la situazione in frontiera non è cambiata. E nonostante gli sforzi della Marina e della Guardia Costiera, di viaggio si continua a morire».
Lei conosce i territori di conflitto. Conosce il vecchio continente. Che cosa servirebbe?
«Soltanto una politica di semplificazione dei visti per la Siria e i paesi africani potrà porre fine a questa tragedia. E i politicanti dovrebbero pensare a fermare le guerre piuttosto che le persone. Il problema è il giro dei visti. Non esistono frontiere chiuse. Le frontiere sono aperte, ma hanno un prezzo. È un problema di economia del contrabbando. Non si può vietare la libertà di viaggiare. E allora la si compra dallo scafista».
E Salvini?
«A lui credo piaccia il nostro film… In fondo (sorride, ndr), li abbiamo davvero aiutati a uscire dall’Italia questi profughi… »