Il dottor Albert Jugend, psicologo da strapazzo, un giorno (per l’esattezza il 25 febbraio 1996) decise di mollare la professione. E, con essa, la moglie Sonne e i due figli Nacht e Morgen, di 5 e 9 anni. Ad Albert, ormai cinquantenne, sarebbe restato il conforto dell’amante Liebe, cameriera pomeridiana in un hotel. Tutto ciò era molto meno di quanto il dottor Jugend meritasse, ma molto più di quanto fosse riuscito a conquistare nella sua normale e compassata esistenza. Era stata Liebe, per la precisione, a definire Albert uno «psicologo da strapazzo». Ma lui ancora non lo sapeva.

Quella mattina, come da nove anni e un mese a quella parte, Albert Jugend, consumata l’abituale, abbondante colazione nella tintinnante sarabanda del risveglio familiare, scese in strada vestito con la consueta eleganza, in abito grigio e scarpe appena lucidate, ma offrendo beffardo allo sguardo dei primi passanti della città ancora sonnolenta un’appariscente cravatta gialla. Erano esattamente le sette e cinque, vale a dire otto ore e quattro minuti prima che il dottor Jugend lasciasse per sempre questa terra in circostanze finora mai pubblicamente chiarite. Nemmeno questo, naturalmente, Albert poteva sapere. Anche se forse, date le premesse, l’avrebbe dovuto intuire.

Invece di dirigersi, come sarebbe stato normale che fosse, lungo la Freude Strasse, per poi costeggiare la riva destra del fiume e sbucare alla fine in Zukunft Platz su cui s’affacciavano le finestre del suo rinomato studio, il dottor Jugend prese la direzione opposta scegliendo, forse solo per il nome, il viale battezzato Heimweh. Era a lui ben chiaro, nel momento in cui si sedette su una panchina con il gusto di chi non ha più vincoli e fretta (per la cronaca, s’erano già fatte le otto), che nulla sarebbe più stato come una volta, che la nostalgia sarebbe divenuta per lui inascoltata consigliera, che solo i ricordi, ora, avrebbero potuto afferrarlo per il bavero nell’ultimo, inopportuno tentativo di riportarlo sulla retta via. Ma era ormai altrettanto lampante che lui, Albert Jugend, stavolta avrebbe resistito, con tutte le forze, agli inganni del tempo e alle bugie che troppo a lungo aveva raccontato a se stesso.

Il dottor Jugend non esisteva più: questo era il primo punto da cui ripartire, per costruire dal nulla, e senza interferenze da parte di chicchessia, una nuova vita. Così pensava questo psicologo stimato e riverito (anche se non da tutti, come già sappiamo). E nel fantasticare sui propri progetti (che a onor di verità dobbiamo giudicare ancora piuttosto confusi) si accarezzava lo spesso nodo della vistosa cravatta. Nell’esatto istante in cui Albert si alzò dalla panchina, rintoccò l’orologio della poco distante Hoffnung Platz: le 10 in punto, non un minuto di più, non uno di meno (la precisione, l’avrete già capito, in questa storia ha la massima importanza). A quest’ora – rifletté il dottor Jugend – in studio si staranno tutti preoccupando, chiameranno a casa, Sonne dirà che sono uscito puntuale come tutte le mattine, non sarà per caso successo qualcosa?, e si metterà a piangere, lacrime in abbondanza, la conosco bene: un tempo amavo le sue crisi isteriche, da manuale, interpretarle non è mai stato difficile, bisogno di affetto, disistima di sé, e io sempre lì pronto a fornire tutto il necessario, amore e riparo, un grande ombrello, ecco il mio ruolo, per tutti; Nacht e Morgen, per fortuna, sono diversi, sapranno cavarsela anche senza di me; io ho costruito questa famiglia e le fondamenta sono la mia carne, il mio sudore, i miei sacrifici, il mio esserci, ma non il mio essere…

Nel preciso momento in cui lo psicologo Albert Jugend si congratulò con se stesso per l’esattezza della diagnosi e la conferma della terapia per il proprio disagio, ovvero la rottura definitiva e irrevocabile con ciò che era stato, mezzogiorno era passato da tre minuti. Il tempo stringeva: per completare il piano di fuga occorreva passare in banca, prima che quell’impiegato taciturno, ma soprattutto riservato, uscisse per la pausa pranzo. Alle dodici e quaranta Jugend prelevò dal proprio conto la somma più alta possibile, che potesse al contempo non ingenerare sospetti e interrogativi, dispose una serie di versamenti a favore della moglie in un numero esatto di dodici rate mensili a partire dall’ultimo giorno di febbraio, si sentì sollevato per aver dato ancora una volta prova di responsabilità e «affetto» (pensò precisamente questa parola), rinunciò generosamente a quanto restava dei propri beni liquidi, riflettendo che per vivere finalmente nella «Verità» e non più nell’«Inganno» (altri termini – lo diamo per certo – cari al dottor Jugend) non occorrevano molti soldi, bensì la «materiale Felicità» (idem come sopra).

Dopo aver consumato rapidamente un panino e una birra in un Imbiss, nella tipica atmosfera nostalgica propria – come noto – di certi locali mitteleuropei, Albert Jugend si presentò, intimamente convinto d’essersi spogliato di una consunta identità, davanti alla porta girevole del Neues Leben Hotel. L’ora va sottolineata: le due meno cinque, ovvero cinque minuti prima dell’entrata in servizio della cameriera di piano Liebe, vale a dire – semplificando – quando mancavano ben pochi istanti all’inizio della tragedia. Se in questi trecento secondi che lo separavano ancora dall’irreparabile, il dottor Albert Jugend avesse miracolosamente cambiato idea, se fosse tornato sui propri passi riattraversando la Hoffnung Platz e poi ripercorrendo viale Heimweh, oppure se – seguendo la via più breve – si fosse incamminato verso la Zukunft Platz, costeggiando poi la riva destra, per imboccare da ultima la Freude Strasse fino a casa, se insomma lo psicologo (evitiamo giudizi) Albert Jugend avesse, nel poco tempo che gli restava, trovato la forza (e il coraggio, per la verità) di contraddire se stesso, ora continuerebbe ad appartenere a questo mondo. Sì, ora sarebbe un uomo sicuramente infelice, ma – è quasi inutile precisarlo – vivo.

Invece Albert, presunto uomo nuovo, salì al quinto piano e trovò Liebe. Lei rise quando lo vide entrare in camera con quella vistosissima e inusuale cravatta gialla. Ma subito dopo si fece seria e al suo stupore oppose la fermissima intenzione di non voler fare, con lui, nessuna pazzia: nessuna fuga, nessuna vita nuova, niente di niente. Quando lui – erano ormai le due e trentacinque – le ripeté per l’ennesima volta (impossibile contare i tentativi disperati di quest’uomo) che tutto poteva, anzi, doveva cambiare, che la sua esistenza fino a quella mattina era stata votata alla comprensione degli altri ma che ora basta, voleva vivere per se stesso, era stanco di capire (e interpretare), e sacrificarsi, e ingannare se stesso e chi gli stava vicino, Sonne, e Nacht, e Morgen, poiché lui cercava da sempre la Verità e l’aveva trovata per tutti, tranne che per sé, lei gli disse (sono le sue precise parole): «La verità tu non l’hai mai saputa». E lui – l’orologio intanto correva – fece appena in tempo a chiedere (ma piano, con tono quasi impercettibile) che cosa intendesse dire. Fu allora che Liebe gli disse la cosa più esatta e vera in tutta l’esistenza del dottor Albert Jugend: «Non hai mai capito nulla di tua moglie e della tua famiglia. Sonne sa tutto di noi, da tempo. L’hai sempre creduta pazza, hai sempre pensato di aiutarla, ma il vero debole sei sempre stato tu, con il tuo bisogno di sentirti il solo in grado di risolvere ogni dubbio, tranne i tuoi. Hai sempre mentito a te stesso. Forse il vero pazzo sei tu. L’unica cosa che ora sai proporre è la fuga. Io ho aiutato Sonne, io le sono stata veramente amica, io l’ho strappata al dolore di vivere accanto a un uomo inutile. C’era un patto fra noi: tenerti in sella, contro la tua stessa natura, lei è sempre stata il sole per te, ti ha dato tutto, dalla mattina alla notte, giorno dopo giorno». Poi Liebe pronunciò quella frase, l’ultima: «Non si comprende come tu possa fare il mestiere che fai. Non capisci nulla, nemmeno le cose più evidenti. Una volta lo dissi anche a Sonne, e lo ripeto oggi: sei uno psicologo da strapazzo».

Fu in quell’istante che Albert Jugend si sentì improvvisamente all’esatto opposto di quel che suggeriva il proprio (ora ridicolo, in tali circostanze) cognome: vecchio.

E, da vecchio, scelse la morte. Non solo per sé. Si sfilò la cravatta gialla e la strinse intorno al collo di Liebe, che non ebbe nemmeno il tempo di capire perché la sua vita dovesse finire così, miseramente, in una stanza d’hotel ancora da rassettare. Poi Albert, inopinatamente, volle fare un ultimo gesto di cortesia nei propri confronti. Andò di fronte allo specchio, si riannodò la cravatta, la sistemò con cura. Quando si sentì a posto, prese la rincorsa e si gettò dalla finestra. Così, il pomeriggio del 25 febbraio 1996, morì il dottor Albert Jugend. Esattamente alle tre e nove minuti. 

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NOTA

I fatti narrati non corrispondono a realtà. Ma potrebbero accadere o forse, all’insaputa dei più, sono già avvenuti. Questa, in fondo, è cronaca mascherata. La scelta dei nomi in tedesco (Jugend, giovinezza; Sonne, sole; Nacht, notte; Morgen, mattino; Liebe, amore; Freude, gioia; Zukunft, futuro; Heimweh, nostalgia; Hoffnung, speranza; Neues Leben, nuova vita) è, naturalmente, simbolica.  

Tratto da “Colpi bassi” di Gianluigi Schiavon, Giraldi Editore