Susan disse: “Se vuoi baciarmi, vieni a Abbey Road”.

John non si diede il tempo di resistere e rispose: “Aspettami là”.

A Londra non c’era mai stato, ma poco importava: trovare la strada dei Beatles non sarebbe stato così difficile.

Lei veniva da Liverpool. E questo spiegava la storia dei Beatles. Lui da Cambridge. E questo non voleva dire niente. L’appuntamento era per le tre del pomeriggio. In punto: un piccolo ritardo e niente bacio, niente amore, niente di niente.

Si erano conosciuti a Roma. Nessuno dei due poteva immaginare che questa città, per entrambi, avrebbe presto significato qualcosa. Erano in vacanza, ognuno per i fatti propri. Li avrebbero messi in comune a Abbey Road, i fatti loro. Così pensavano. Seduti da “Er Ciccio”, giù nel ventre grasso di Trastevere, trasalirono nel guardarsi negli occhi. Susan d’improvviso gli chiese:

Sono troppo magra?”.

John, già da un po’, stava fissando la sua camicetta di seta bianca che riposava sui seni piccoli, ma sicuramente ben fatti.

Come?”, chiese per guadagnare tempo.

Hai capito benissimo. Sono troppo magra?”.

Niente affatto”, rispose allora John, tutto impettito. Ed era sincero.

I suoi occhi, da innamorato precipitoso, correvano sui lunghi capelli biondi che giocavano con le spalle di Susan, ora riposandosi su di esse, ora spiccando il volo in riccioli di leggerezza e birbanteria, ogni volta che lei scuoteva la testa per ridere. Già da un po’, John, si sentiva innamorato.

Niente affatto”, ripeté.

Carlo, invece, pensa di sì”.

John sentì una saetta che attraversò l’universo per arrivare a spaccargli il cuore. Lascia che sia, si disse. Ma non pensava alle canzoni dei Beatles. Comunque, tutto questo valse meno di una certezza, molto più di un presentimento.

Non le chiese cose come: “E chi cazzo è questo Carlo?”. Nemmeno disse: “Me ne strafrego del tuo Carlo!”. In effetti, non provò neanche a urlare: “Digli, a quel come-si-chiama, che mi stia alla larga, o gli regalo una faccia nuova!”. Lo pensò solo. E in silenzio restò a rimuginare. Finché Susan non gli disse quella frase. Proprio quella:

Di lui non mi importa nulla. E’ solo un tizio conosciuto a Roma. Ma se tu vuoi baciarmi, vieni a Abbey Road”.

E John si dimenticò di Carlo. E di tutto il resto.

Non fece domande. Partì subito per Londra, in treno. Aveva tempo: lei sarebbe arrivata due giorni dopo, in aereo (a Roma aveva una cosa da fare, disse). L’importante per entrambi, a quanto pare, era essere lì per le tre. Del pomeriggio. In punto, come tutti già sappiamo.

Quando, la mattina di due giorni dopo, John scese dal treno a Victoria Station mancava un quarto d’ora a mezzogiorno. Sono in anticipo, ma è meglio non rischiare, pensò. E s’infilò nell’Underground, senza mettere il naso fuori dalla stazione, nemmeno su Wilton Road. Si piazzò davanti all’enorme mappa della metropolitana cominciando subito a perdersi nell’intreccio della linea azzurra con la verde e la gialla, mentre la rossa s’intersecava con la nera che finiva sull’azzurra e la marrone sembrava stare per i fatti suoi, ma invece no, eccola incrociare la blu, la rossa, la nera e anche la grigia. John controllò l’ora: mezzogiorno, di già.

Prima di avere 64 anni, sarà meglio che la trovi, pensò. E anche stavolta non stava citando un titolo dei Beatles. Poi improvvisamente l’apparizione: Abbey Road! Posizione defilata, sulla destra della cartina, più o meno equidistante dal margine in alto e da quello in basso, scritto in piccolo, non lontano dalla cornice in alluminio. Studiò il percorso, non prima di aver dato un’altra occhiata all’orologio: mezzogiorno e un quarto. Doveva prendere la Circle (linea gialla), direzione est, cambiare a Tower Hill, salire sulla DLR (doppia linea azzurro chiaro), stare attento subito dopo East India, scegliere la direzione Canning Town e poi, verso nord, Star Lane, West Ham e finalmente, sì, Abbey Road! Riguardò l’ora: 12,20. La faccenda stava diventando isterica.

Ma l’isteria è irragionevole come un treno che non arriva mai. Passarono altri 20 minuti prima che John potesse salire a bordo. Più rilassato di un astronauta sulla rampa di lancio, poco meno di un paracadutista in caduta libera.

Questa storia è assurda – pensò – ma almeno sta per finire. Se pensate che un’ora sia più che sufficiente a Londra per andare in metropolitana da Victoria Station a Abbey Road siete liberi di farlo, ma il consiglio è di non scommetterci un penny.

Dopo un guasto della fornitura elettrica, una protesta dei Black Bloc e un tentativo di suicidio sui binari, erano le due quando John risalì trafelato le scale della stazione di Abbey Road. In fondo non c’era più bisogno di essere agitati: mancavano ancora sessanta minuti all’appuntamento con il bacio più sognato della storia dei baci. Ormai era fatta, non c’era più fretta: un’ora, in questo caso sì, sarebbe stata più che sufficiente. Salvo imprevisti.

L’inaspettato si presentò sotto forma di un enorme cartello, firmato dal sindaco di Londra. Una scritta beffarda, tanto crudele quanto indiscutibile, avvertiva:

Sfortunatamente sei sulla Abbey Road sbagliata”

Al viaggiatore sperduto alla ricerca della via originale, sulle cui strisce pedonali i Beatles si fecero fotografare insieme, non molto tempo prima di prendere strade diverse, il cartello offriva spiegazioni che citavano ad arte titoli di canzoni del quartetto di Liverpool, fino a comporre un’unica, sonora presa per i fondelli. Così non poté non pensare il giovane John nel leggere che anche lui sicuramente era un “Day Tripper” alla fine di un lungo vagabondaggio “Here, there and everywhere” lungo un inutile “Magical mistery tour”. Ma non tutto era perduto: “We can work it out”, aggiungeva il cartello offrendo al disgraziato viaggiatore lì presente un “Help”, sicuramente risolutore. John non aveva mai pensato tanto intensamente alle canzoni dei Beatles e stava per fare a pezzi l’insegna e tutte le sue citazioni quando lesse le conclusioni affisse a piè di cartello: 

Per andare alla vera Abbey Road riprendi la DLR, scendi alla prima

stazione: West Ham. Cambia linea e vai sulla Jubilee (colore grigio).

Scendi alla St.John’s Wood. E sarai arrivato. Naturalmente ricorda:

ti servirà un ‘Ticket to ride’ ”.

Fanculo!”, urlò John. E saltò sul primo treno, diretto a ovest. La vera Abbey Road era dalla parte opposta della città: nove miglia più in là, oltre il suo senso di sconfitta. Guardò l’orologio: le due e un quarto. Ce l’avrebbe fatta. O almeno avrebbe tentato. Scommettete quel che volete.

Quando scese alla St.John’s, il giovane innamorato non interpretò come un segno del destino il fatto che la stazione dell’Underground si chiamasse come lui. John non aveva più tempo per i dettagli: mancavano tre minuti alle tre.

All’uscita della stazione un altro cartello benevolmente suggeriva:

Fai tre isolati a ovest di Grove End Road. E sulla tua destra troverai: Abbey Road”

John fece quei tre isolati più veloce di un astronauta lanciato in orbita, più spedito di un paracadutista in caduta libera senza paracadute. Aveva il cuore in gola, e da quelle parti anche il cervello, quando finalmente svoltò in Abbey Road. Prima di volgere lo sguardo verso le strisce pedonali più famose della storia delle strisce pedonali, volle controllare l’ora un’ultima volta: le 3 e dieci minuti. Poi alzò gli occhi. E fece in tempo a pensare che la canzone adatta alla sua storia avrebbe potuto avere un solo titolo: “The wrong Abbey Road”. E magari sarebbe stato anche un successo. Trovato lungo una strada sbagliata.

A fatica cercò di mettere a fuoco l’immagine al centro della strada, perché stava già piangendo e le lacrime confondevano tutto. Come dargli torto? Lì sulle strisce c’era la sua Susan, proprio lei. Ma non era sola. C’era quel tizio, lì vicino. Piuttosto vicino. John lo capì subito e sapeva di non sbagliarsi, perché le intuizioni non accettano di essere contraddette: quell’uomo era Carlo, il romano. Susan e Carlo si stavano baciando.

John capì anche, al volo, che a Abbey Road ormai non aveva più niente da fare. Ripetè fra sé e sé, senza alcun senso: “No, non sei troppo magra”. Poi girò i tacchi. E s’infilò nell’Underground: rossa, gialla, nera, grigia o blu, qualunque linea sarebbe andata bene. Non aveva più importanza.

Perché, in fondo, questa è la storia di un amore stonato. Come una canzone sbagliata.

                                                    (Gianluigi Schiavon)