Lo chiamavano Caravaggio. Il soprannome gli andava a pennello. Per affinità artistica. E soprattutto somiglianza in stile di vita, illegittimo e scriteriato quanto un dipinto a tinte fosche. In fondo – pensava – Caravaggio era un delinquente come lui. Perciò il soprannome gli piaceva, trovandolo adatto. Anche se sua madre – fin dal primo vagito – aveva scelto di chiamarlo Santino, quasi per scaramanzia. Ed era stata come una bestemmia. In faccia a Dio e soprattutto a Satana. Il cognome Degli Esposti, stabilito in secondo tempo, fu solo un’ammissione di ignoranza della paternità. Ma questo ormai non interessa più né agli storici, né ai cronisti.

Santino Degli Esposti, detto Caravaggio, sapeva usare assai bene il pennello. E ancor meglio il coltello. La rima non appariva solo una coincidenza. Con l’uno e con l’altro era un maestro. La medesima parola che lui usava per indicare chi ammirava e al tempo stesso temeva quanto una condanna in Cassazione, definitiva e disarmante: Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, l’Inarrivabile, modello insuperabile d’arte e di vita. Impossibile far meglio di lui. In ogni campo.

Alla Biblioteca Nazionale di Napoli, dove il Degli Esposti era nato e il Merisi visse due volte per morirne lontano, Santino aveva studiato l’argomento: i quadri, e tutto il resto. Da quelle letture aveva imparato l’arte del dipingere che traduceva in affreschi fugaci sui muri dei Quartieri Spagnoli. E la gente nel rimirare tanta arte, generata nell’arco di una notte, alla mattina ogni volta diceva:

Toh, un altro Caravaggio”.

Ma arduo era eguagliare il modello in quest’ambito come nella vita privata. Santino a ogni buon conto ci provava. Fino a stilare una fedina penale dove distinguere il maestro dal discepolo talvolta appariva difficile.

Il 28 novembre del 1600 – ricordava a memoria Degli Esposti – Michelangelo Merisi malmenò un nobile di Montepulciano e ne venne da questi denunciato. Anche a Santino successe lo stesso, più recentemente: chissà chi si credeva d’essere quel tipo che continuava a ripetere lei non sa chi sono io. Nel 1603 Caravaggio (l’originale) venne processato per diffamazione. Anche Caravaggio (l’emulo) subì identica sorte. Nel 1604, tra maggio e ottobre, il grande pittore venne arrestato più volte per possesso abusivo d’armi e ingiurie alle guardie: fu un’estate piena d’impegni. Come quelle che Santino era solito organizzare. Nel 1605 Caravaggio ferì gravemente un notaio. Anche a Santino accadde qualcosa di simile, ma si trattava più precisamente di un avvocato. Lo stesso anno il grande modello d’arte e di vita venne querelato per non aver pagato l’affitto. In circostanze simili l’alunno superò più volte il maestro. Sì, le somiglianze erano davvero tante, rifletteva Santino. Caravaggio finì nei guai per risse. Anche lui. Violenze. Anche lui. Schiamazzi. Anche lui. Omicidio. Anche lui.

Santino Degli Esposti, soprannominato per molte ragioni Caravaggio, portava iscritta nel cervello con tintura indelebile quella data, 28 maggio 1606. Fu quel giorno che il più grande dei pittori alle origini del barocco, e probabilmente anche il più rissoso, assassinò un tale. Fu quattro secoli dopo che il suo più grande e sconosciuto ammiratore fece lo stesso. Caravaggio uccise per amore di una donna. Anche lui, Santino.

Ora viveva in quello che gli storici di sempre chiamerebbero un sottotetto nel palazzo dello Spagnolo, rione Sanità, e che i cronisti di oggi definirebbero il “bunker” di un latitante: Santino Degli Esposti non poteva più farsi vedere in giro, di dedicarsi ad affreschi notturni sulla pubblica via nemmeno a parlarne. Il grande Caravaggio venne condannato per omicidio alla decapitazione. E si diede pure lui alla latitanza, o quasi. Ai critici d’arte non sfuggì il fatto che in molti suoi quadri cominciarono a comparire teste mozzate, la cui somiglianza con l’autore appariva significativa.

Santino Degli Esposti che – se tutto andava bene – rischiava l’ergastolo, nel suo sottotetto-bunker si annoiava. E resisteva. Resisteva. Finché, ogni tanto, scappava.

Le mete delle sue fughe erano più prevedibili di visite guidate. Tre erano i Caravaggio in città. Due esposti a Napoli da molti anni. Il terzo da meno tempo. Ma era, per certe ragioni, il più importante.

Più volte lo videro, senza riconoscerlo, al Museo Nazionale di Capodimonte, in posa di meraviglia davanti alla “Flagellazione di Cristo”, dove Gesù, pur immobilizzato, pare danzare di fronte ai suoi torturatori. Vorrei essere libero come lui, lo sentirono spesso mormorare, senza poter capire.

E spesso venne anche sorpreso, da chi nulla poteva sospettare, nella chiesa del Pio Monte a rimirare il caos ordinato delle “Sette opere di Misericordia” dove tra tutte quella più meritoria gli appariva il “Visitare i carcerati” unita al “Dar da mangiare agli affamati”, due episodi rappresentati in un’unica scena, con un condannato a morte per fame nutrito in carcere dal seno di una fanciulla. E tutto questo gli parve un cattivo presagio. Che figlio di puttana che eri, Caravaggio, sussurrava sommessamente Santino Degli Esposti, nel rilevare la blasfemìa del suo maestro quando univa, olio su tela, il profano al sacro in uno scenario di vicolo che tanto gli ricordava la Napoli popolare in cui lui stesso doveva nascondersi, approfittando di un sottotetto-bunker. Per non parlare di quel seno scoperto che dritto lo riportava al pensiero della donna per la quale aveva saputo uccidere: Lucia.

Santino Degli Esposti non ne poteva più. Di nascondersi. Del sottotetto. O del bunker, comunque lo si volesse chiamare. Del non poter tracciare, nemmeno sommariamente, un affresco, notturno e clandestino, sui muri dei Quartieri Spagnoli, come ai bei tempi, perché sarebbe stato un indizio lampante e traditore della sua presenza di latitante in città. E non sopportava nemmeno più il ricordo di Lucia. Che chissà ora dov’era. E con chi.

Fu l’insofferenza per una vita dannata, più che il desiderio di sfida, a spingerlo verso la mossa estrema: visitare il terzo Caravaggio conservato in città e presentato a Palazzo Zevallos, vale a dire in via Toledo, ovvero la centrale e affollata via delle boutique, sarebbe a dire il posto più indicato per farsi trovare e incastrare dalla polizia. Il latitante Degli Esposti, detto il Caravaggio anche per l’indole folle e la vocazione a cacciarsi nei guai, si presentò alla cassa di Palazzo Zevallos in un pomeriggio che diluviava, dichiarandosi ex carabiniere e come tale chiedendo lo sconto sull’entrata. Con il biglietto ridotto arrivò, tremante per l’emozione e anche per la giacchetta intrisa di pioggia, davanti all’ultimo capolavoro dipinto dal Maestro: “Il martirio di Sant’Orsola”.

A lungo, con i capelli bagnati dal diluvio e gli occhi di lacrime, fissò lo sguardo perso di Attila un istante dopo aver scoccato la freccia sacrilega, e poi il petto trafitto di Sant’Orsola, e dietro di lei i visi dei testimoni dell’empio delitto e su uno di questi la smorfia di dolore di un tale che assomigliava, anzi, era ed è, per storici e studiosi d’arte, proprio lui: Caravaggio in persona, nel suo ultimo autoritratto.

E mentre tornava con lo sguardo sul viso della Santa colpita a tradimento non poté non stabilire una rassomiglianza tra lo stupore di lei e quello comparso sul suo, di volto, che naturalmente non poté vedere ma certo immaginare, mentre due poliziotti sbucati dal nulla lo ammanettavano. Fece in tempo a rivolgere un cenno di saluto a Caravaggio sulla tela e si lasciò portare in galera.

La fine del maestro del barocco ancora oggi è un mistero dai colori incerti, quella di Santino Degli Esposti no. Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, morì non molto dopo aver dipinto “Il martirio di Sant’Orsola”, nel 1610 e lontano da Napoli. Di febbre o assassinato. In fondo poco importa, se non agli storici. Quattro secoli dopo Santino Degli Esposti, soprannominato – per un’infinità di ragioni – Caravaggio, venne trovato morto suicida, con le vene dei polsi squarciate, nel carcere di Poggioreale, non troppo lontano dal suo rione. Il suo corpo, come composto da mani pietose, giaceva finalmente sereno sotto un affresco, autografo e improvvisato, sul muro della cella numero 501. Ben visibile nel dipinto, e soprattutto riconoscibile, il volto di una donna che un avvocato d’ufficio assicurò somigliante in tutto e per tutto a una certa Lucia. Accanto a lei, in atteggiamento proteso e adorante, un uomo raffigurato in maniera tanto realistica da poter essere definito un perfetto autoritratto. Attribuito a Santino Degli Esposti, detto Caravaggio.

                   Gianluigi Schiavon