Il fatto che si trattasse di sangue nessun testimone lo mise mai in dubbio. Le macchie rosse, abbandonate a se stesse, in ordinata sequenza sul selciato, inseguivano le orme del gigante che aveva appena varcato l’Arco di Cutò. Dove quel colosso fosse diretto, nemmeno il testimone più reticente avrebbe potuto negarlo: il mercato di Ballarò, cuore e viscere della Palermo che sapeva nascondersi e, preferibilmente, non farsi riconoscere.

Il gigante a volto scoperto mascherava lo sforzo del camminare sotto una contrattura della mascella coperta di ispida barba: sulle spalle portava con fatica non solo fisica ciò che ai più apparve un enorme sacco di iuta, chiuso su tutti i lati ma violato sul fondo da un pertugio non voluto. Era da lì che cadevano le gocce. Di sangue.

Cu è? Cu è?

Così, sommessamente, si interrogava la gente sulla pubblica scena. Ma, in realtà, chi fosse quel tizio con il suo carico di morte era domanda a cui nessuno desiderava rispondere. Porre il quesito era sufficiente. Risolverlo un altro paio di maniche, sicuramente più impegnativo, soprattutto per chi alla propria pelle restava affezionato.

Cu è? Cu è?

E il ritornello accompagnava l’incedere di quel mistero errante a Ballarò. Il gigante prese fiato prima di imboccare via Chiappara al Carmine. Si ritrovò presto tra bancarelle cariche di tunni, pisci spata e scorfani. Buttò l’occhio sui banchi senza rilevare la differenza tra ciò che vedeva e quel che trasportava. Gli animali esposti nelle cassette, immersi in un innaturale mare di ghiaccio, apparivano diafani e puliti, quasi immacolati e fittizi nella loro mortalità. Il suo fardello no: continuava a seminare gocce. Di sangue vero. Come se ancora lottasse con la vita. Ma il gigante, ignaro, non se ne curava. Girò per via di Collegio di Maria al Carmine. Vide vetrine di botteghe colme di cuccuzzedde, tenerumi, stigghiòle, cazzilli, quarume e anche panelle. Non sentì l’interrogativo che continuava a pedinarlo sulle bocche dei passanti e dei futuri, possibili, testimoni:

Cu è?

Nemmeno udì chi, nel rischiare di più, chiese anche, a voce alta:

Chigghiè?

Ma cosa fosse quel pacco pesante e sanguinante, nessuno trovava poi il coraggio di dirlo con la chiarezza dei giusti che osano parlare. Intanto, incurante del mondo e del suo sangue, il colosso aveva raggiunto piazza Carmine. Scrutò ogni lato, con sguardo di sbieco guatò ogni insegna: “Il virdumaro”, “L’alivaro”, “Il vruccularo”… Ebbe un ghigno d’insoddisfazione. Quel che cercava non era lì. E fu in quel momento che un anonimo domandò ai presenti, chiaro e tondo:

Chiccè rintra ‘u paccu?

Il gigante non rispose, principalmente perché nemmeno sentì. Altri invece, che definire testimoni è fin troppo, afferrarono comunque al volo l’interrogativo e senza farne cenno al prossimo, ma nel segreto della propria coscienza, ricordarono la recente scomparsa di Chiddu, così definito, orfano di nome e cognome, poiché né dell’uno né dell’altro risultava degno, essendo sempre stato uomo che troppo parlava. E pertanto tradiva.

Il gigante, con uno scatto di insofferenza e affaticamento, svoltò infine in via Ballarò. Ciò causò il depositarsi sul selciato di ulteriore, cospicua traccia di sangue. E i Chigghiè? e i Chiccè rintra ‘u paccu?, sommessamente, si sprecarono fra la folla di viandanti, insensibili e inerti quanto gli ipotetici testimoni del fatto.

Il colosso accelerò il passo, sfidando la gravità del pacco che col trascorrere del tempo e della distanza fin lì percorsa pareva aumentare oltre il sopportabile. Così almeno sembrò al suo trasportatore e a chi lo spiava.

Un nuovo Cu è? scivolò sull’asfalto dalla penombra di un portone socchiuso. Stavolta il gigante colse il sussurro e si girò furioso verso il buio da cui proveniva. Ma non vide niente, perché il portone venne prontamente serrato.

Il gigante a quel punto si fermò, annusando l’aria come un animale in cerca di nuova preda, dimentico di quella che già sta trascinando con sé. Poi ricordò qualcosa e ripartì con espressione risoluta come chi sa che la caccia sta per finire. Arrivò giusto a metà di via Ballarò. Un testimone che poi ritrattò disse che alzò lo sguardo sull’insegna e come un enorme bambino sillabò:

Car-ne-zz-ie-re”.

E mentre qualcuno, che mai si presentò a confermare davanti a un giudice, pronunciò un ultimo Chigghiè?, il gigante varcò la soglia della bottega e sulla lastra di marmo del bancone da macellaio rovesciò il suo carico e svolse l’incarto e mostrò a tutti il suo segreto e tutti dall’esterno poterono vedere di che si trattasse e come il contenuto fino a quel momento perfettamente celato ben s’adattasse all’ambiente ora circostante, come in effetti non poteva non adattarsi quel trancio ancora sanguinante ma non più misterioso: un quarto di bue.

Fu in quel momento, nella distrazione e nel sollievo generale della gente di Ballarò, che nessuno sembrò accorgersi dell’arrivo di un carretto spinto da un altro uomo, costui piccolo e dallo sguardo cattivo. In seguito, nessun testimone volle sottolineare il contrasto evidente con la mole del gigante appena entrato nella bottega e l’apparente somiglianza – al tempo stesso – di ciò che entrambi avevano fin lì trasportato: in effetti, anche sul fondo del biroccino stava deposto un sacco, enorme e di iuta, chiuso su tutti i lati ma violato sul fondo da un pertugio non voluto. Era da lì che cadevano sul selciato gocce rosse e dense. Di sangue. L’uomo macilento spinse il carretto oltre la vetrata aperta, diretto alla cella frigorifera del “Carnezziere”. In quel momento il gigante usciva stringendo soddisfatto in mano il salario ricevuto per la consegna di carne fresca. Un istante dopo il carretto urtò il gradino sulla soglia. E per lo scossone il pacco, sulla cima, si aprì. Solo un poco, ma abbastanza per svelare il volto di un uomo morto.

Al processo contro ignoti, intentato a seguito dei fatti qui raccontati, nessun testimone aprì bocca per avanzare il ragionevole dubbio che l’uomo nel pacco potesse essere lo scomparso Chiddu, il traditore indegno di nome e cognome, ucciso perché parlava troppo.

                          Gianluigi Schiavon