Ci ha lasciato di sorpresa, quasi in contropiede. Ma Aldo Ferrari era fatto così. Nato per stupire: con le foto o con le parole di giornalista curioso, ironico, pungente. L’ho conosciuto all’alba degli anni Ottanta nella redazione del Resto del Carlino, io giovane recluta, lui già capocronista e inviato speciale. Quando il direttore Neirotti mi mandò allo sport, me lo ritrovai come caposervizio. La mole imponente, i radi capelli tenuti lunghi fin quasi sulle spalle, una fronte altissima solcata da rughe già profonde. Dimostrava molto di più dei suoi 56 anni, forse perché le stagioni della vita le ha vissute sempre intensamente: come sommozzatore durante la guerra e poi come fotografo dell’Associated Press, prima di dedicarsi al giornalismo scritto.
Aldone (nomen-homen) aveva la stessa età di mio padre, gli stessi baffi folti e una straordinaria capacità di trovare il lato comico o surreale delle cose. Quello sguardo da fotografo curioso gli era rimasto dentro, alimentava un’eterna voglia di conoscere e di indagare il mondo.
L’idea di metterlo a capo dello sport era venuta al caporedattore Metello Cesarini dopo aver letto i reportage di Aldo dalle Olimpiadi di Mosca 1980. In quei Giochi, segnati dal boicottaggio americano, Ferrari fece da guida ai lettori del Carlino, raccontando una Mosca ancora spettrale e austera e le sue lunghe camminate per gli interminabili corridoi dell’hotel Rossia, una cattedrale laica costruita dentro il Cremlino per ospitare i giornalisti al seguito delle Olimpiadi.
Quel capo così vistoso nelle sembianze e così apparentemente burbero mi intimoriva. Ma sotto il vocione roco e dietro quelle mani che sembravano pale c’era una spirito libero, un uomo amabile, disposto a perdonare quasi tutto e farsi carico di quote di lavoro enormi. Dopo aver disegnato menabò che somigliavano a geroglifici, e che solo lui decifrava compiutamente, Aldo si lanciava nel passaggio del materiale: dal titolo di apertura all’ultima breve. Gli altri della redazione (dal suo vice Marchesini a Marchetti, da Nordio a Pirazzini a Gigetto Vespignani) scrivevano i loro articoli e li passavano al vaglio del cerbero dal capello bianco.
Ferrari li correggeva con cura, tirava fregi e rigoni sulle parole indesiderate o improprie e poi si grattava la fronte per rimuginare su un titolo, per inventare un gioco di parole ad effetto. Ogni tanto si colpiva la fronte con una pacca delle enormi mani, finchè la folgorazione non arrivava a benedire il suo momento creativo. Ecco allora ”Beccia, il calvo che sfreccia” per celebrare un’impresa del piccolo ciclista e ”Mastropasqua di resurrezione” per un gol del centrocampista bolognese in periodo di fine quaresima.
Entusiasta per natura, giornalista d’impeto e di furore, Aldo aveva un conto in sospeso con la memoria. E allora poteva succedere che dopo un lauto pasto disegnasse i menabò della giornata, si buttasse convulsamente a passare titoli e pezzi, salvo accorgersi, alle nove della sera, che nel faticoso castello della pagina aveva dimenticato di prevedere l’articolo sulla Juve. Allora partiva la celebre pacca sulla fronte imperlata di sudore e cominciava il rosario delle maledizioni. C’era da ricominciare il lavoro da capo e Aldo ritornava alla sua guerra quotidiana con lo spazio e con la notizia.