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Cosa ci insegna il Montoya re di IndyLeo Turrini - 25 maggio 2015

Quando mi ha raggiunto la notizia che Ciccio Montoya aveva (ri)vinto la 500 Miglia di Indianapolis, ero in compagnia dell’ingegner Forghieri.

Francamente io sono rimasto sorpreso, se non addirittura stupito.

Forghieri no. Sai, mi ha raccontato, io collaboravo con la Bmw quando la casa bavarese forniva il motore alla Williams e il colombiano correva per loro e in Bmw erano sicuri che Montoya fosse il vero, se non l’unico rivale di Schumi.

Ah, quel periodo me lo ricordo!

Di Juan Pablo ho narrato prodezze deliranti e scempiaggini assolute. Ho anche sempre avuto il sospetto che la sua carriera in F1 sia naufragata di botto un pomeriggio del 2003 ad Indianapolis, quando gli inflissero una bandiera nera, lui era in lizza per il titolo e da quella smusata non si riprese più.

Debbo anche dire (cioè ribadire, immagino di averlo già scritto in passato) che il suo duello con Schumi a Monza, sempre nel 2003, fu qualcosa di epico. Per quasi l’intero Gran Premio si sfidarono viaggiando su ritmi altissimi, dopo aver rischiato la collisione alla variante della Roggia. Una delle corse più emozionanti alle quali mi sia capitato di assistere.

Perchè Ciccio si sia stufato abbastanza in fretta della F1 forse lo sa lui. Può darsi, come dicevano amici sudamericani, che il contesto, l’ambiente, eccetera per niente si adattassero al suo stile di vita. I maligni sussurravano che, in un’era di drivers necessariamente…anoressici o giù di lui, a lui piacesse magnare e bere. Infatti io lo adoravo per questo, per solidarietà enogastronomica.

Poteva dare di più, Montoya. Ma è sempre stato un pilota vero e non ne conosco tanti capaci di trionfare, nella storia, a Indy come a Montecarlo, l’alfa e l’omega dell’automobilismo.

Ps. C’era poi quella storia che lo voleva figlio di un fioraio: ma appurato che fiori fossero, eh.