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Una settimana a MonzaLeo Turrini - 29 agosto 2015

Il primo ricordo di Monza si lega al sedile posteriore di una Millecento.

Era il 1966.

Stavo in macchina con papà e l’autoradio fece sapere che un certo Scarfiotti aveva vinto il Gran Premio d’Italia di Formula Uno.

Mio padre non è stato mai un fanatico delle corse su quattro ruote. Gli interessavano il giusto. Quando era ormai molto vecchio, gli presentai Montezemolo. Sapeva chi era, ma quando tornammo verso casa mi disse: beh, questo tuo simpatico amico dal ciuffo volante cosa aspetta per cominciare a lavorare?

Comunque, quel tardo pomeriggio del 1966 ricordo che sentì la notizia di Scarfiotti e la commentò così: sono contento per Enzo Ferrari. E stop.

Avevo sei anni, forse fu la prima volta che sentii evocare un nome che tanto avrebbe inciso, dìrettamente e indirettamente, sulla mia esistenza.

Poi mi viene in mente il 1971.

Stavo per cominciare le medie.

Fu quella gara pazzesca con un incredibile arrivo in volata. Mi pare che la Rai la trasmise in diretta. Vinse Gethin, con una Brm.

Era uno spettacolo impressionante, per gli occhi di un bambino, la Formula 1 di allora.

Magari mi innamorai lì. Ignoravo tutto di Gethin. Non mi risulta abbia combinato altre cose cose splendide, nei Gran Premi. Eppure, la sua immagine è conficcata nella memoria. Come un dardo che non si rimuove.

E ancora, nell’età dei sogni, nella adolescenza, a Monza debbo la fine di un amore (a senso unico, perchè la concupita ignorava del tutto la mia passione).

Era il 1978.

Ormai c’ero dentro con la testa, avevo adorato Lauda sulla Rossa e c’era stato il trionfo del 1975 e il grande ritorno del 1976 e l’addio brusco a fine 1977, con l’arrivo di Gilles.

Cose, queste, che debbo aver già raccontato.

Ma il 1978!

La terrificante carambola in partenza.

Patrese sotto accusa.

La sensazione di sollievo la domenica sera, perchè dicevano che nessuno si era fatto troppo male.

E cominciava l’ultimo anno di liceo.

Con la più biondina, la più cretina, cretino tu.

Bene. Anzi, male.

Sono a scuola. Arriva un compagno che aveva sentito la radio e fa: beh, incredibile, è morto Ronnie.

Peterson.

Che per me era un idolo (per tanti, in quell’epoca lì: nel 1972 aveva guidato anche la Ferrari, nel Mondiale Marche).

Fu un colpo durissimo.

Ma lei, l’amata, scuote il caschetto biondo, agita gli occhi azzurri ed esclama: e chi sarebbe questo Peterson?

Non poteva funzionare.

Lei l’ho dimenticata.

Peterson, mai.