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Di Villeneuve in VilleneuveLeo Turrini - 7 maggio 2017

Credo di aver raccontato più di una volta cosa abbia rappresentato Gilles Villeneuve per la mia generazione.

Ho anche narrato di un giovanissimo cronista che, nelle ore della agonia del Mito, strappò a un prete una preghiera.

Nel trentacinquesimo anniversario di un evento tragicamente simbolico, ho avuto una meravigliosa conversazione con Jacques, il figlio campione dell’Eroe. Verte, il dialogo, sul rapporto difficile, se non impossibile, tra un figlio e un padre, quando il padre è una Leggenda.

Forse è la più bella intervista della mia carriera, per esclusivo merito di Villeneuve junior.

La pubblico qua sotto, integralmente. Sperando, almeno stavolta!, mi siano risparmiate le trollate dei dementi. Salut, Gilles!

“Purtroppo io ho faticato a far comprendere alla gente che non volevo essere considerato il figlio di una leggenda. Semplicemente, avevo avuto un papà, come tutti…”

8 maggio 1982. Trentacinque anni fa, giusti giusti. Sulla pista di Zolder, in Belgio, durante le prove del Gran Premio di Formula Uno un incidente stronca la vita di Gilles Villeneuve. Appena sei volte vincitore di corse, eppure amatissimo da intere generazioni di ferraristi. La Rossa è l’unica scuderia per la quale il piccolo pilota canadese abbia gareggiato, a parte una apparizione secca con la McLaren.

“Invece a me non è capitato di guidare la Ferrari _ sospira Jacques, l’erede, campione del mondo con la Williams nel 1997_ Onestamente mi sarebbe piaciuto, ma non si sono mai materializzate le condizioni per un accordo”.

Da un Villeneuve all’altro, sarebbe stata una storia fantastica.

“Ma proprio questo a me dava fastidio!”

In che senso?

“Chi mi stava attorno vedeva solo il cognome. Io, in una certa ottica, dovevo essere il figlio e basta. Era una forma di pressione insostenibile”.

Inevitabile, però.

“E in effetti oggi me ne rendo conto. Ma non era bello sentirsi dire che ero lì, in pista con la Williams, per realizzare ciò che a mio padre era sfuggito, cioè diventare campione del mondo. Per reazione, scappavo”.

Una fuga dal Dna.

“Ero giovane e mi chiedevo: perché nessuno valuta l’ipotesi che io faccia il pilota da Gran Premio perché ho la passione, a prescindere dal ruolo che mio padre ha avuto? Era come se volessero contrappormi a lui. Dovevo rivendicare la mia identità. E poi…”

E poi?

“Gilles Villeneuve per me non era un mito, non poteva esserlo. Era il mio papà. Con il quale avevo avuto il mio rapporto privato, privatissimo. Come si permetteva gente che lo aveva conosciuto solo nella veste pubblica di parlarne al posto mio?”

Come fu l’impatto con la tragedia?

“Rammento benissimo il 1982. Avevo undici anni. Ho pianto ininterrottamente per due settimane. Poi ho smesso. Mi sono detto: adesso basta lacrime, sono l’uomo di famiglia, aveva una mamma e una sorellina. E sono andato avanti a ciglio asciutto”.

Sulla stessa strada del genitore.

“Sì, ma a modo mio. Non mi sono confrontato mai con lui.  Non ho mai pensato: completerò l’opera. Io sono io. Mio padre è mio padre”.

Restava il problema della percezione esterna.

“Ho deciso di fregarmene. Pensassero quello che volevano. Se mi interrogavano su papà, andavo via. Vuol sapere una cosa?”

Prego.

“Nel 1995 vinco la 500 Miglia di Indianapolis. La gara più importante che ci sia al mondo, a livello automobilistico. E mi contatta la Williams, che all’epoca era il top team della Formula Uno. Accetto la proposta e sento dire: ah, l’hanno preso per il cognome! Ma insomma, che cosa volete da me, cosa debbo dimostrare ancora?”

E cosa ha dimostrato ancora, Jacques?

“Beh, nel 1997 ho battuto Schumacher e ho vinto il titolo. Michael aveva un po’ preso il posto di mio padre nel cuore dei ferraristi. E’ stato un momento struggente. Lì le cose sono cambiate, la gente piano piano ha accettato l’idea che non ero solo il rampollo di una dinastia”.

Deve essere stata una liberazione.

“Adesso non mi irrito se qualcuno mi fa domande su papà. Io ho la memoria di un bambino, lui con me era severo, invece con mia sorella Melania era uno zuccherino, cose così. Ma ho superato la fase del rifiuto. E capisco che l’affetto dei ferraristi per lui aveva un senso, una motivazione forte”.

Una volta so che ha guidato la Rossa del babbo.

“Sì, è accaduto nel 2012, erano passati trent’anni esatti dalla disgrazia di Zolder. Mi telefonano Montezemolo e Domenicali, allora ai vertici della Ferrari. Mi fanno: Jacques, qui è pronta la vettura di tuo padre, ti piacerebbe farci un giro in pista a Fiorano?…”

Da brividi.

“Mi sono commosso. Sono andato. C’erano ad accogliermi i meccanici di papà, me li ricordavo ancora, avevano facce meravigliose, invecchiati e però sempre uguali. Mi sono calato nell’abitacolo e…”

E…

“E ho pensato: oh papà, sono qua, nel tuo posto, con quello che era il massimo della tecnologia al tuo tempo. Sono qua, papà, e un cerchio si chiude. E’ stato bellissimo, come la fine di un percorso”.

Jacques, la Formula Uno del 2017 è molto diversa dalla sua e da quella di Gilles. Le piace ancora?

“Sì, perché bisogna accettare il cambiamento, l’evoluzione delle cose. Stiamo assistendo ad un bel campionato, finalmente la Ferrari ha raggiunto la Mercedes e se la gioca alla pari”.

Chi la spunterà?

“Io cento euro li punterei su Seb Vettel vestito di Rosso. Eh, sono sempre il figlio di Gilles Villeneuve il ferrarista, cosa crede?”