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Ferragosto con Enzo FerrariLeo Turrini - 15 agosto 2017

Il 15 agosto di 29 anni fa veniva annunciata al mondo la scomparsa di Enzo Ferrari.

Interrompo per un attimo la sequenza di domande&risposte per proporre anche in questa sede l’articolo che sui miei giornali, Resto del Carlino-Nazione-Giorno, ho dedicato alla curiosa (eufemismo) relazione esistente tra il Drake e questo giorno particolare del calendario.

Buona vacanza a tutti.

Leo Turrini

“Ferragosto è il giorno dell’anno che odio di più. Come mai? Semplice: persino io sono costretto a non andare in ufficio, il 15 agosto. Tanto, non ci troverei nessuno…”

Simbolo assoluto della italianità, icona consapevole (certo non gli faceva difetto l’autostima!) di una patria che amava tantissimo, in realtà Enzo Ferrari era quasi un alieno, rispetto alle abitudini dei suoi connazionali. La storiella del Ferragosto la ripeteva spesso, un po’ per civetteria e un po’ perché ci teneva a segnalare una diversità esistenziale. “La fabbrica chiusa mi mette tristezza -confidava- Del resto capisco che i miei collaboratori abbiano il diritto fi staccare la spina, eppure io ricomincio a respirare solo quando i macchinari riprendono a funzionare!”.

All’alba degli anni Settanta, la crisi d’astinenza fu talmente forte “che organizzò un test per la F1 in pista a Fiorano, era Ferragosto, mi convocò, stavo al mare, non sentì ragioni, andai a provare, c’erano tre meccanici raccattati chissà dove e un ingegnere e c’era lui, felice come una Pasqua, seduto su una seggiola, ai box”: memorie di Clay Regazzoni, pilota ticinese legatissimo alla storia felice del Cavallino.

Austero nella concezione della vita, pur apprezzandone fino in fondo i piaceri, il Drake di Maranello fino all’ultimo ha conservato la personalissima avversione per la giornata nella quale, metaforicamente, l’Italia chiude per ferie. Non per caso l’annuncio della scomparsa del costruttore venne divulgato, indovina!, il 15 agosto del 1988.

“Forse fu anche un tiro giocato in extremis agli amici nemici giornalisti -raccontava Franco Gozzi, che di Ferrari fu per decenni il braccio destro e il braccio sinistro- Lui sapeva che a ferragosto nemmeno i cronisti lavoravano. Non voglio affermare che studiò la cosa a tavolino, però l’effetto fu quello. L’annuncio della morte piombò in redazioni deserte, il 16 agosto le edicole erano chiuse, almeno in Italia, e chi aveva preparato i necrologi dovette aspettare quarantotto ore per vederli pubblicati. Mica male come beffa, eh?”

Nell’episodio, romanzato quanto si vuole ma rigorosamente autentico, si coglie l’unicità bizzarra di un grande Eroe italiano. Enzo aveva attraversato a tutta velocità il secolo breve. Del Novecento era stato interprete e testimone, sempre coltivando l’illusione di poter contribuire allo sviluppo della sua terra tramite lo strumento della passione, la passione che in lui si traduceva nell’impulso a creare motori, costruire automobili, vincere corse. Aveva scelto i contadini della provincia modenese come prototipi del meccanico ideale e dell’ingegnere perfetto. Sembrava una follia, era una visione profetica. “Solo chi ha conosciuto la fatica feroce dei campi -ebbe a raccontare- è in realtà in grado di comprendere il valore salvifico della meccanica. L’agricoltore povero ha sempre sognato il motore, il trattore…”

Ecco, Enzo Ferrari si trasformò in mito vivente per questa straordinaria intuizione, premessa dei gioielli che avrebbe fabbricato in officina nonostante lo stop di Ferragosto. Non si afferra il fascino profondo dell’individuo se ci si limita ad ammirare la Gto o la monoposto di Niki Lauda. Dentro e dietro la leggenda ci stava la persona in carne e ossa, sangue e nervi. Con i suoi pregi, tanti. E con i suoi difetti, non pochi pure quelli.

“Sono un agitatore di uomini”, diceva di se stesso quando gli veniva chiesto un giudizio autobiografico. E nella frase c’era anche il senso di una umiltà che pure possedeva, nell’oceano di un tracimante orgoglio personale. Sintetizzando: Ferrari non dimenticava mai di essere come il generale di un piccolo esercito. Oggi la gente alla moda ricorre a slogan (“Fare squadra, fare sistema”, eccetera) che lui incarnava silenziosamente.

“Sapeva di essere un leader -ricorda Mauro Forghieri, che guidò il reparto corse delle Rosse dal 1962 al 1984- Era convinto di dover dare l’esempio, se pretendeva tantissimo dai dipendenti era perché dava tutto alla azienda, lui per primo. Poi, certo, con la idiosincrasia per il Ferragosto e la fabbrica vuota esagerava, una volta fui costretto a spiegargli che le ferie erano un diritto costituzionalmente garantito. Abbassò per un attimo gli occhiali scuri e ridendo rispose: beh, allora hanno ragione quelli che propongono la riforma della Costituzione!”.

Nella ossessione per il lavoro, nel sentirsi prigioniero felice di un obbligo quotidiano, probabilmente Ferrari esorcizzava la paura della miseria. Povero in canna era stato davvero, la Prima Guerra mondiale aveva ucciso padre e fratello e di quattrini in famiglia ne erano rimasti pochi. Disperato, quando la Fiat gli aveva negato un posto di lavoro, aveva addirittura pensato al suicidio. E mezzo secolo più tardi avrebbe ricordato quell’episodio a Gianni Agnelli, diventato socio del Vecchio di Maranello nel 1969. L’Avvocato lo confortò con un sorriso: beh, io sono qua per rimediare agli errori dei miei predecessori, non crede?

Adesso la Storia è cambiata. La Ferrari ha sposato la modernità. E’ quotata in Borsa, a Wall Street e a Piazza Affari. Magari ad Enzo sarebbe piaciuta la svolta del nuovo millennio, di sicuro a lui non facevano paura le sfide. Tanta acqua è passata sotto i ponti. Domani è Ferragosto e sarà il ventinovesimo anniversario dell’annuncio della morte di un simbolo dell’italianità che pure era distinto e distante dalle mode e dalle abitudini dei suoi connazionali.

Ci manca, io credo, anche per questo.