Panico D’Annunzio
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Firenze, 12 maggio 2012 – Nonostante le molte storie pubbliche e private raccontabili, la vera Firenze di D’Annunzio resta la Capponcina, la fantasmagorica villa sui colli di Settignano abitata dal divino Gabriele tra il 1898 e il 1910, il suo distante e inaccessibile eremo delle Muse, la sua dimora da nuovo Principe rinascimentale fatta a misura d’anima: per creare.
Di lassù – secondo l’evocato modello di Segantini «religioso pittore delle cime» e «anacoreta estatico» –, D’Annunzio parla ai fiorentini e a tutto il mondo. Di lassù parlano per lui, nel silenzio, i motti, le citazioni, le parole aggiunte ai mille oggetti raccolti, collezionati. Parlano al loro padrone e del loro padrone, parlano al visitatore valutato degno, magari con il Poeta assente: non calato in città per ideali o carnali cimenti, né con la Duse in tournée in Egitto o in Grecia, né a cavalcare impavido, panico e selvaggio, per battigie e pinete della Versilia, ma semplicemente occupato in altre stanze.
Parlano, quelle didascalie, risuonano, producono simboli e suggestione. Ecco «Coperto il serba» accanto al focolare, tra rami secchi di melograno allusivi di un progetto letterario rimasto incompiuto, «Divae Salamandrae sacrum» in ricordo di una bestiola promossa a «genius loci» che avrà fortuna con Papini; il pindarico «Ottima è l’acqua» che rispunterà sul soffitto del Bagno blu del Vittoriale, e il motto di Nicolò Grasso «Chi ’l tenerà legato?» su un rustico giogo abruzzese che oggi solo qualche trattoria di campagna molto capace potrebbe prendere in seria considerazione. E ancora i francescani e sufficientemente perversi (da Sera fiesolana) «Clausura» e «Silentium», o all’aperto, dove l’abitare di D’Annunzio continua, dove l’artefice non interrompe la sua opera, i pagani «All’ulivo di Pallade Atena dagli occhi chiari» e «Vedo» e «Ascolto» in serie alternata, circolare, infinita.
La sapienza dei segni della vita, la prodigiosa capacità di cogliere cifre e sigle del mistero promossa dalla cólta retorica da casa, è prerogativa dell’esteta e del superuomo, personaggi vocati all’eccellenza e al primato miticamente ricongiunti alle origini di quel sapere. Vita e cultura confuse, natura ed arte come un «dio bifronte», parole come oggetti e, insieme, come spolpate sonorità, accordi, note. Uno sterminato vocabolario dell’esistente tra corpo e anima cui partecipano i realistici paesaggi toscani che hanno fatto da sfondo alle inimitabili imprese dell’eroe e ai suoi riposi, alle sue estati confluite in unico diario, nell’unico canto di un’unica Estate: Alcyone.
Marco Marchi
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde più rade,
men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
Gabriele D’Annunzio