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Buon compleanno, Gabriele D’Annunzio!

VEDI I VIDEO “Stabat nuda Aestas” ,  “Meriggio” letta da Roberto Herlitzka , “La sera fiesolana” letta da Vittorio Gassman , “Nella belletta” , “Il vento scrive”

Firenze, 12 marzo 2016 – Ricordando l’anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863).

Nel silenzio inaccessibile che ammanta l’operosità della Capponcina («Lege lege lege et relege – labora ora et invenies», parole d’oro impresse su legno), accanto alla validità storicamente resistente di opere che D’Annunzio consegna al Novecento, ci sono appunto – mischiate con gli arredi che l’autore della Filosofia dell’arredamento avrebbe in seguito definito «un calco dell’anima», «l’involucro senza il quale l’anima si sentirebbe come una chiocciola priva della sua conchiglia»parole.

La parola per D’Annunzio è un’entità fisica, vocaboli e lessici sono i magazzini corporei a cui rivolgersi, le collezioni organizzate dell’esistente da cui trascegliere: persino il neologismo, in D’Annunzio, è più una scoperta che un’invenzione. E il dominio protagonistico dell’io, a regime suggestivo ancorché fiduciosamente realistico, è così certo di sé che la dicitura aggiunta, come nei casi citati, è, ai modi duri dell’imperativo e della domanda retorica, uno sprone alla promozione inesausta e via via ulteriore delle proprie possibilità, secondo un’ipotesi antropocentrica al massimo, che fuori della villa, ai suoi cancelli, vicino al rumore della strada, ha il suo plausibile riscontro in eleganti intimidazioni su targa. Il filosofico cane favorito Teli-teli è dentro, Firenze – a meno che non si tratti di Dante, del Rinascimento, e insomma di un’idea di Firenze personalmente riassumibile e surrogabile – resta fuori.

In realtà fin da allora la complessiva proposta decadentistica di D’Annunzio si dimostrava tutt’altro che disinteressata alla strada. Basti pensare al coevo episodio del parlamentarismo della Bellezza, gesto e parola anch’esso: D’Annunzio, per dirla con Benigno Palmerio, tutt’altro che «musulmano». Spetterà ancora all’autore di Con d’Annunzio alla Capponcina, nel capitolo L’onorevole d’Annunzio, testimoniare della militanza politica dello scrittore a Firenze, allorché, sciolta la Camera dei Deputati e indette per il 30 giugno 1900 nuove elezioni, D’Annunzio fu invitato dai socialisti ad accettare una candidatura nel capoluogo toscano, in particolare nell’importante e difficile collegio centrale del «bel San Giovanni», roccaforte della borghesia cittadina più ricca e inespugnabile.

Ma  lassù, a parlare nel silenzio, non è il relatore dantesco che pure richiamando in chiave necrologico-patriottica l’esempio di Segantini «religioso pittore delle cime» e «anacoreta estatico» aveva parlato ai fiorentini di sé, né il candidato in corsa (poi battuto) per la rielezione a deputato della sinistra, ma sono le didascalie, i motti: oggetti tra oggetti, parlano al loro padrone, parlano al visitatore valutato degno di essere ricevuto, magari con D’Annunzio assente, o occupato in altre stanze; parlano a voce alta, risuonano. «Coperto il serba» accanto al focolare, assieme ai rami secchi di melograno allusivi di un progetto rimasto incompiuto, «Nunquam deorsum», «Divae Salamandrae sacrum» in ricordo di una bestiola promossa a «genius loci» che avrà fortuna con Papini (per il momento giovane Gianfalco del «Leonardo», generosamente sovvenzionato e reso primo editore di Anniversario orfico), il motto recuperato dal ritratto di Giovanni Moroni «Et quid volo nisi ut ardeat?» di nuovo nei pressi di un camino, il pindarico «Ottima è l’acqua» che rispunterà, in un gioco intertestuale vivacissimo, sul soffitto del Bagno blu del Vittoriale; finanche i paganamente francescani e perversi, da Sera fiesolana, «Clausura» e «Silentium», e all’aperto, dove l’abitare continua, dove D’Annunzio non interrompe la sua opera di artefice, «All’ulivo di Pallade Atena dagli occhi chiari», e «Vedo» e «Ascolto» in serie alternata, circolare, infinita.

La sapienza dei segni della vita, la prodigiosa capacità di cogliere cifre e sigle del mistero promossa dalla cólta retorica da casa, è prerogativa dell’esteta e del superuomo, personaggi vocati all’eccellenza e al primato miticamente ricongiunti alle origini di quel sapere. Vita e cultura confuse, natura ed arte come un «dio bifronte», parole come oggetti e, insieme, come spolpate sonorità, accordi, note. Uno sterminato vocabolario dell’esistente tra corpo e anima cui partecipano i realistici paesaggi toscani che fanno e faranno per sempre da sfondo alle inimitabili imprese dell’eroe e ai suoi riposi, alle sue estati confluite in unico diario, nell’unico canto di un’unica Estate: Alcyone.

Marco Marchi

Stabat nuda Aestas

Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò nei sui capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.

Gabriele D’Annunzio

(da Alcyone)

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