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Papini e la mela renetta

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Firenze, 8 luglio 2017 – Ricordando che l’8 luglio 1956 moriva a Firenze Giovanni Papini.

Opera prima, prima felicità: primizie «salvatiche», e tuttavia costantemente minacciate, dell’unitario grazie alla poesia ritrovato: di scoperte, di riconciliazioni, di provate armonie. È un crescendo di attestazioni, di esclamazioni e constatate prese di possesso, in questo libro in versi papiniano edito nel 1917 da Vallecchi.

Rimettersi «in regola colla vecchia famiglia», o «Essere in pari colla natura e cogli uomini. Essere in regola con Dio», come si dirà in una pagina liricamente omologa della Seconda nascita. Anche Mario Isnenghi, nel suo profilo monografico dedicato a Giovanni Papini, prende atto di una diversa qualità, di un diverso impegno e di una diversa tenuta estetica dei testi poetici di Opera prima rispetto a precedenti esercizi, suggerendo a ragione nel vociano, lirico e tormentatamente prosastico e spezzato Jahier uno dei punti di riferimento di questa sperimentazione che pur tende al sublime, perfino al misticamente sublime.

Alla verifica, la novità del testo del 1917 e la sua configurazione complessivamente conforme ai principi dichiarati e ai loro strumentari tecnici di riferimento (storiograficamente sensibili all’Italia e all’Europa), tengono: al punto che una tendenza e prima ancora una voce si impostano, con risultati che il Contini antologista della letteratura nazionale unitaria non meno del ben anteriore Papini di Poeti d’oggi esemplificano al meglio, puntando di conserva, del tutto giustamente, sulla Quinta poesia.

È l’epopea intima ed instabile dei «freddi sapori» naturali, dei «piluccati» piaceri del gusto, delle simbolistiche ma vivide e terragne pacificazioni di un attimo che porta con sé, rivelandolo con i suoi retrogusti, il «sempre»: «Al freddo sapore di mela renetta / in lingua, per tutta la bocca / che succia ed aspetta, / ritorna negli occhi la ciocca // immobile al dolco d’autunno / sospesa alla voglia – una frasca / di verde cognato a Vertunno / distesa nel latte di vasca. // Mela renetta che mordo, / in questo riposo di festa, / adagio, come un ricordo / di dolcezza manifesta…».

Un poeta irriconoscibile, rispetto al poeta precedente, tutt’altro che burlesco, popolaresco o da almanacchi; una prova eccellente, da antologia severa del Novecento. La nota fondamentale e vincente è quella di un fisico e sinestetico godimento, sospeso e circoscritto, stratificato e bergsoniano, in accordo atitanico, aspramente campestre, da «ansia tranquilla»: un accordo già distanziato e per così dire già riassaporato, memoriale, ossimorico, franto e funebremente intriso, secondo quel conato a «far sì che tutto l’universo fosse il suo corpo» diversamente prospettatosi in Un uomo finito, o l’«accento puro di estasi naturali» che nasce dal «godersi, in un filo di verde o di sole, il suono e il peso d’una parola che dice tutto nella sua musicale genericità» riscontrato da Papini in un poeta-soldato, nella poesia del Porto sepolto di Ungaretti .

Se la base novenaria e i suoi duttili, liberi impieghi all’interno di quartine a rime alterne rimandano ad antecedenti forniti da Pascoli e D’Annunzio (non senza echi di trattamento colloquiale e parodicamente storpiante alla Palazzeschi e più in generale alla «Lacerba»), notiamo infine, grammaticalmente e ancora con Gianfranco Contini, le rilevabili, promettenti in senso ermetico «forme non attualizzate (“in lingua”, “di vasca”), segno – come il critico dice benissimo – di una composizione di oggetti che si armonizza al momentaneo accordo col mondo e in particolare con se stesso (“io e me”), caduco ma intanto da godere».

Marco Marchi

Quinta poesia

Al freddo sapore di mela renetta,
in lingua, per tutta la bocca
che succhia ed aspetta,
ritorna negli occhi la ciocca

immobile al dolco d’autunno,
sospesa alla voglia — una frasca
di verde cognate a Vertunno
distesa nel latte di vasca.

Mela renetta che mordo,
in questo riposo di festa,
adagio, come un ricordo
di dolcezza manifesta.

Una mi basta: nel gusto
di quell’instante, di quell morso,
rivedo all’ombra oblique del fusto
passare il blù come un chiaro discorso.

Tutto abbandono in disparte.
Figliolo di terra ed erede
d’incontrastabile parte
il Dio mal creduto mi vede.

Mia la foglia che strappo odorando
le dita — ma più la discesa
che rifarò, tra poco, pensando
a me, sotto l’aria che pesa.

Mia tutta, la campagna, in quell sapore
che maturamente si distrugge e si disfa,
mio l’odore, l’afrore
dell’imprecisa immensità.

Giovanni Papini

(da Opera prima, 1917)

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