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Caproni e il gibbone

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Firenze, 10 luglio 2017 – Parole… Quanti congedi, quanti addii, e quanti inaspettat trasferimenti di tipo autobiografico nella poesia di Caproni: tutti i Caproni, tutti dei suoi «io» altrove, tutti dei personaggi separati della sua poesia. Nello scompartimento di un treno, in una stanza notturna e debolmente illuminata, per vie e in ascensore, in osterie e bar di stazione invasi dalla nebbia, in selve oscure e foreste metafisiche dove si spara, di fronte al mare delle sue pericolanti città dell’anima, Livorno e Genova, come di fronte a uno spaesato gibbone visto allo zoo, Giorgio Caproni ci ha aiutato a considerare la realtà un’allegoria: ci ha abituato eticamente ad essere, come avrebbe detto Pessoa, tutto in ogni cosa, ponendo quanto siamo nel minimo che facciamo.

La lezione di Caproni mi è sempre apparsa una lezione di povertà, di economiche riduzioni allo stretto necessario, di reimpieghi, di preparazioni rigorose e struggenti, esistenzialmente fondanti, di un silenzio che non sia, come quello dello Spatriato («in particolare – secondo una nota dell’autore – il poeta»), un «Peggio che fosse muto». La parola di Caproni, anche nei silenzi sempre più fitti che la circonderanno e l’allargheranno nelle opere bellissime, lucide e spietate, della vecchiaia, rivela lo stesso spessore preoccupato, essenzialmente popolare e antintellettualistico, dei messaggi di Annina: la loro necessità ridotta all’osso, da codice familiare. Le mirabilmente asciutte partiture filosofiche del Franco cacciatore, del Conte di Kevenhüller e di Res amissa non hanno mai rinunciato a quei sapori terragni, liguri e livornesi, artigiani, schietti, arguti e affettuosissimi, del Caproni che è venuto prima.

Sì, Caproni è approdato al concetto, alla scabra, incisiva oggettualità trasparente di nominazioni provate, da risolvere in musica: è diventato, diciamolo pure, un’altra cosa. Ma anche qui Caproni e il lettore per cui Caproni già da prima non era stato un minore non esitano a ritrovare il «patetico», quella «forza interiettiva» incontenibile e individualizzante valorizzata a suo tempo da Pasolini, in apparenza programmaticamente castigata, azzerata di proposito, scartata, e invece in termini più segreti attiva: come in un quartetto tardo di Beethoven, o in un movimento cameristico di Weber, dove il pianto bagna davvero, e soltanto, la mente, diventando esso stesso, da espressione ancora naturalistica di un sentimento, musica infallibile e nient’altro.

Costretto ai congedi in anticipo per poter restare, consapevole della propria colpa e della propria condanna, senza preclusioni verso i suoi simili e verso i suoi dissimili, scrivendo versi il poeta ha incontrato perfino il suo doppio, colui che scrive da solo, colui che scrive versi che gli «fanno il verso», che lo deride: il solitario controcanto al canto. Privatissimo fino all’indecenza e involontario, il «controcaproni» si farà sentire: «Morto io, / morto Dio», sentenzierà veloce come un fulmine, tagliente come una lama, in Di conseguenza, o: Proverbio dell’egoista: due versi brevissimi, in apparenza risolutivi, che sottintendono Kierkegaard non meno di una gradassata popolare ascoltata tra scaricatori che bevono ponci al rhum sull’uscio dello Sbolci a Livorno, e che però sono soltanto battute musicali, un accordo che si lascia cogliere, musica.

Marco Marchi

Il gibbone

A Rina

No, non è questo il mio
paese. Qua
fra tanta gente che viene,
tanta gente che va –
io sono lontano e solo
(straniero) come
l’angelo in chiesa dove
non c’è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.

Nelle ossa ho un’altra città
che mi strugge. E’ là.
L’ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi – un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
mai, – mi ricondurrà.

Giorgio Caproni

(da Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee)

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