L’osso del dolore. Giovanni Raboni
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Firenze, 12 agosto 2017 – Ha scritto Raboni a proposito di Claudel: «Si è sempre insistito molto – e, curiosamente, sia da parte dei suoi ammiratori che da parte dei suoi detrattori – sulla “materialità” dell’ispirazione e della scrittura di Claudel, sul fortissimo tasso di “corporalità” presente nella sua poesia lirica e teatrale. Cito, per tutti, Thibaudet […]: per Thibaudet, Claudel è “poeta della materialità dei dogmi, delle devozioni, dei sacramenti, delle immagini, di tutto quanto la religione, essendo umana, può e deve comportare di corporale…”. Descrizione precisa, e da sottoscrivere, ma con una correzione o precisazione essenziale: oltre e più che la religione con i suoi apparati e le sue cerimonie, è il mondo intero – il Creato, appunto, con il suo drammatico, atroce, esaltante convivere e combattersi di materia e di spirito, di carne e di anima, di impurissimi corpi e di purissime voci – ad apparire a Claudel come un tutto inscindibile, all’interno del quale non c’è pensiero che non pesi e non sanguini e non c’è ferita per quanto infetta e purulenta da cui non si sprigioni un sospetto, un profumo di salvezza» (Claudel, il corpo e le voci, nel collettaneo La poetica della fede nel ‘900. Letteratura e cattolicesimo nel secolo della «morte di Dio», Liberal Libri 2000).
A tanto caro sangue, appunto, tra le cellule stesse, vorremmo dire, di quella «membrana segreta» che, unendo e separando, coniuga, articola, dà respiro a chi scrive. Il poeta Giovanni Raboni ritrova qui, al cospetto di un conflitto ineludibile in ogni seria visione del mondo, il suo problema, la sua luminescente oscurità da «religiosa esperienza del nulla» (la definizione, perfetta, è di Luigi Baldacci), il suo profilo stesso di individuo creante da autobiografia differita, da misteriosa «vita scritta» rinvenibile senza cesure in quella scritta da altri: una «vita scritta» già vissuta e ancora da vivere nei conati insoddisfatti da «sfrattato dal tempo», da poeta «semivivo» e «semimorto» attratto da «barlumi», rilkianamente memore di un «altrove», teso e disteso, comunicante: «Tanto difficile da immaginare, / davvero il paradiso? Ma se basta / chiudere gli occhi per vederlo, sta / lì dietro, dietro le palpebre, pare // che aspetti noi, noi e nessun altro, festa / mattutina, gloria crepuscolare / sulla città invulnerata, sul mare / di prima della diaspora – e si desta // allora, non la senti? una lontana / voce, lontana e più vicina come / se non l’orecchio ne vibrasse ma // un altro labirinto, una membrana / segreta, tesa nel buio a metà / fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…» (Tanto difficile da immaginare, in Quare tristis).
Prosegue Raboni critico, ancora riferendosi a Claudel: «In altre parole, il centro del suo sentire – e, dunque, del suo voler dire – c’è l’idea incombente, terribile, irrinunciabile dell’Incarnazione: un’incarnazione, per così dire, perpetua, mai veramente compiuta, sempre da ricominciare, che coinvolge tutti perché tutte le anime devono, in qualche momento misterioso e fatale della loro storia, “sforzarsi” di diventare corpi, di acquistare la dolorosa e gloriosa grevità della materia, così come in un altro momento non meno misterioso e non meno fatale tutti i corpi devono “sforzarsi” di uscire da se stessi, di liberarsi del proprio peso».
La poesia non abbandona chi a lei si dedica, chi lei ricerca, presupponendola, pronto ad ogni evenienza, «qualcosa di possibile». A tal punto che nell’arduo e per certi aspetti clamoroso passaggio raboniano dal riassuntivo A tanto caro sangue: poesie 1953-1987 ad una nuova fase inaugurata dai Versi guerrieri e amorosi sarà possibile riconoscere non tanto una smentita o un drastico mutamento di rotta, una resa o addirittura un’irresistibile illusione plagiante, quanto una complementarità, una continuità, un ulteriore – segreto ed imprevisto quanto si vuole ma gioioso, naturale – ritrovamento dell’espressione: «Morto per loro, e presto: ma con lei / tanto consente il cuore / che è di vecchiaia che vorrei morire»; e a ruota, a suggello delle bellissime Reliquie arnaldine: «Vacilla il cuore e sbanda / se di lei solo gli occhi hanno vivanda / e palpitando a sapere m’invita / che questa poca vita è la mia vita».
Marco Marchi
Dolore
Tu e le tue fissazioni! Mi vien voglia
di rinfacciarti le mie piaghe,
quelle sì cancrenose, immedicabili…
Ma no, sbaglio. Non io, tu sei l’erede
d’una sacra penuria,
te e i tuoi da sempre ha saccheggiato il cielo.
C’è più tristezza nel tuo lutto
per un gioco perduto, per una bambola squartata
che nel mio per il novero dei morti
che colleziono da una vita.
E’ più giusta, ha più stoffa la tua pena.
E intanto non riesco a consolarti,
mio affannato, tremante, altero amore!
Non rispondi, mi guardi
come, ma sì, come un nemico di classe
se cerco di distrarti,
se ti ricatto con la tenerezza…
Ma credimi, tesoro, che non voglio rubartelo
l’osso del tuo dolore.
Giovanni Raboni
(da A tanto caro sangue, 1988)
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