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Pavese, la morte e gli occhi

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Firenze, 27 agosto 2017 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la norte e avrà i tuoi occhi, 1951)

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