Un gioiello di Carlo Betocchi
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Firenze, 2 ottobre 2017 ‑ Se poeticamente i maestri del vedere di Carlo Betocchi fin dall’inizio sono i poeti – da Rimbaud a Campana – religiosamente l’anomalia della celebrata e a suo modo emblematica Allegrezza dei poveri a Tegoleto del libro d’esordio Realtà vince il sogno rappresenta un corollario da non sottovalutare di quel vedere, di quel cantare una fusione uomo-natura tipica del contadino, di quell’affidarsi a una poesia della terra e delle metafore agricole (Dai campi), a un’attenzione religiosa e già liturgica al ritmo delle stagioni e a quello della luce lungo l’arco del giorno (Io un’alba guardai il cielo, Al giorno).
Ne emerge una figura di Dio legata alle meraviglie del creato. In assenza del volo definitivo l’«ala ansiosa» della canzone, il suo slancio inesausto di rapporti, trova là la sua patria elettiva: là è nata, e là vuol tornare, struggendosi per un borgo del Signore, un imprevisto umbilicus mundi in cui la dolcezza si emancipa da conforti di «fame e stenti», da crudeltà di pietre rovesciate pronte a ripagare, in termini propriamente naturali e già imbevuti di luce, con «ginestre e sole».
Una scandita liturgia delle ore, dei giorni, delle stagioni; un incipiente, rinnovato «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari». Tegoleto come elogio della povertà e del fare: laggiù, sotto gli occhi del Signore, anche una Signora con la esse maiuscola, la luna, svolge il suo lavoro, notte dopo notte. Nessuna protesta: un’accettazione gioiosa e letificante, remissiva: «indignatio non facit versus».
Ci ricordiamo, con il Russell di Misticismo e logica, di Platone, il cui pensiero, com’è noto, è portatore di impulsi contraddittori. L’obiezione di Parmenide al giovane Socrate intento a spiegare che c’è un’idea del bene non esita a rivalutare, nella dinamica del pensiero che si costruisce, cose come il fango e l’immondizia: «le cose più umili», testualmente. Questo difficile consiglio inclusivo, secondo Russell, rivelerebbe un temperamento scientifico autentico: quel fango, tuttavia, è lo stesso che imbratta anche gli occhi da colombella di Santa Teresa d’Avila, quando essa è distolta dal fulgore divino che l’acceca e guarda se stessa. Se la disposizione mistica del primo Betocchi potesse disinvoltamente apparire in sospetto di wishful thinking, di un’impulsiva incarnazione anticipata di desideri e niente più, vari fattori funzioneranno presto da correttivi.
Alcuni di essi, in verità, risultano già segretamente efficienti, scientificamente a loro modo già predisposti quali ostacoli a un facile matrimonio dell’ideale con il mondo. Già il dubbio iniziatico sul conoscere è contraddetto dal sentire allargato di una comunità-campione di lavoratori, poco importa se di sapore strapaesano, mitizzati per via di letteratura come gli scambi amorosi notturni tra upupa e upupo; già il «tetto / antico» in Di uno stagno campestre o i «poveri tetti» di Vetri ‑ arcaico e povero di nuovo insieme ‑ segnano la ritornante linea di confine tra ciò che ci racchiude e ciò che è altro da noi, ciò che tende al cielo e ciò che rimane a terra.
È poco, ed è molto. Sta di fatto che sotto quei tetti, e dal confronto con altre comunità-campione, l’en plein air di Realtà vince il sogno risulterà presto contraddetto. Precocemente Betocchi inaugura la sua identità acutamente fissata da Andrea Zanzotto tra «poeta dei tetti, delle tegole» e «poeta del cielo», ma quasi subito l’articola e l’arricchisce, facendosi portavoce di una poesia che, esemplata sulla comportamentistica cangiante del divino e duttilmente fedele alle possibilità registrative dei propri slanci, è insieme attaccata alle cose e «metafora di ogni diversità» rispetto ad esse. Il dominio dell’aereo con le sue immagini-metafore sembra anzi acquistare più pregnanza proprio a partire da quel confine fisico che in Betocchi si stabilizzerà ricorrente, freno a troppo facili, prematuri e gratuiti voli fantastici e speculativi. Ne deriveranno, semmai, immagini di verità, nonché idee di Dio, sufficientemente fisiche (Dai tetti, Canto serale).
In Altre poesie, tuttavia, il libro del 1939 da cui la stupenda lirica Il dormente è tratta, il «quotidiano, piccolo bisogno» prevede già, albale come la visione che siglava l’apertura del primo libro, l’invocazione del soccorso divino: invocazione domestica, da chiuse stanze, dove un uomo solo è seguito adesso da occhi muti e il suo canto «non ha suono». «E forse l’albe infantili mie ‑ conclude Betocchi ‑ volgono / verso quest’alba più grande e severa / d’un’altra gioventù, non piena d’angeli, / umana, e sacra ai dolori di tanti / che come me, sulla terra, hanno sera / prima che cali il giorno, o come vogliono i Tuoi decreti, Provvidenza vera» (Alla dolorosa Provvidenza). Ma anche così il volo è spiccato: salvaguardato, al riparo dalle drammatiche complicazioni del discorso che lo renderanno in futuro, con il procedere degli anni, inaspettatamente più difficoltoso e controverso: la verità della provvidenza rintracciata per il momento nella sua stessa dolorosità.
Marco Marchi
Il dormente
Io mi destai con un profondo
ricordo del mio sonno.
Dalla mia veglia guardavo
il mio corpo dormiente,
era giorno, era un chiaro
giorno silente.
Quando le sere d’estate
esalan profumate
tenebre sul fiume, un uomo
giace sopra la riva
addormentato dal suono
dell’onda viva.
Passano sopra il suo viso
l’ombre del paradiso
lunare, tra i flessuosi
salici e il lieve vento;
celano gridi amorosi
l’erbe d’argento.
Vento e prati fluttuando
muoiono con un blando
fiotto e là, presso il suo corpo,
come a un’isola viva
da un mare languido e smorto
il flutto arriva.
Presso il suo corpo si rompe
quell’ineffabil fonte;
e il suo respiro leggero
di creatura che dorme
scioglie nell’etereo cielo
azzurre forme.
Carlo Betocchi
(da Altre poesie, 1939, in Tutte le poesie)
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