D’Annunzio e il novilunio di settembre
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Firenze, 22 settembre 2017 – La poesia di oggi – un capolavoro di Alcyone e dell’intera produzione lirica dannunziana – fu composta al Secco Motrone, in Versilia, la sera del 31 agosto 1900.
Un solo rilievo, prima di abbandonarci alla potente, infallibile suggestione di questo componimento. Si notino al v. 79 del testo «gli ossi delle seppie» che forniranno venticinque anni dopo, assieme a tanti altri materiali di accertabile e accertata derivazione dannunziana, il titolo a un nuovo classico della letteratura italiana del Novecento: Ossi di seppia di Eugenio Montale. Questo tra continuità linguistica e ribaltamento ideologico, come bene emerge rileggendo e mettendo a confronto (in queste Notizie, alcuni ricorderanno, l’abbiamo un’altra volta fatto) Meriggio di D’Annunzio e Meriggiare pallido e assorto di Montale.
Marco Marchi
Il novilunio
Novilunio di settembre!
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, trasparente come
la medusa marina,
come la brina nell’alba,
labile come
la neve su l’acqua,
la schiuma su la sabbia,
pallido come
il piacere
su l’origliere,
pallido s’inclina
e smuore e langue
con una collana
sotto il mento sì chiara
che l’oscura:
silenzioso viso esangue
della creatura
celeste che ha nome Luna,
cui sotto il mento s’incurva
una collana
sì chiara che l’offusca,
nell’aria lontana
ov’ebbe nome Diana
tra le ninfe eterne,
ov’ebbe nome Selene
dalle bianche braccia
quando amava quel pastore
giovinetto Endimione
che tra le bianche braccia
dormiva sempre.
Novilunio di settembre!
Sotto l’ambiguo lume,
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
il mare, più soave
del cielo nel suo volume
lento, più molle
della nube
lattea che la montagna
esprime dalle sue mamme
delicate,
il mare accompagna
la melodia
della terra, la melodia
che i flauti dei grilli
fan nei campi tranquilli
roca assiduamente,
la melodia
che le rane
fan nelle pantane
morte, nel fiume che stagna
tra i salci e le canne
lutulente,
la melodia
che fan tra i vinchi
che fan tra i giunchi
delle ripe rimote
uomini solinghi
tessendo le vermene
in canestre,
con sì lunghi
indugi su quelle parole
che ritornano sempre.
Novilunio di settembre!
Tal chiaritate
il giorno e la notte commisti
sul letto del mare
non lieti non tristi
effondono ancora,
che tu vedi ancora
nella sabbia le onde
del vento, le orme
dei fanciulli, le conche
vacue, le alghe
argentine,
gli ossi delle seppie,
le guaine
delle carrube,
e vedi nella siepe
rosseggiar le nude
bacche delle rose canine
e nel campo la pannocchia
dalla barba d’oro
lucere, che al plenilunio
su l’aia il coro
agreste monderà con canti,
e nella vigna
il grappolo d’oro
che già fu sonoro d’api,
e nel verziere il fico
che dall’ombelico stilla
il suo miele,
e su la soglia del tugurio
biancheggiar la conocchia
dell’antica madre che fila,
che fila sempre.
Novilunio di settembre,
dolce come il viso
della creatura
terrestre che ha nome
Ermione, tiepido come
le sue chiome,
umido come il sorriso
della sua bocca
umida ancora
della prima uva matura,
breve come la sua cintura
nel cielo verde
come la sua veste!
Ha tremato
nella sua veste
verde che odora
ad ogni passo
come un cespo ad ogni fiato,
ha tremato
al primo gelo notturno
ella che a mezzo il giorno
dormì con la guancia
sul braccio curvo
e si svegliò con le tempie
madide, con imperlato
il labbro, nella calura,
vermiglia come un’aurora
aspersa di calda rugiada
e sorridente.
E io le dico: “O Ermione,
tu hai tremato.
Anche agosto, anche agosto
andato è per sempre!
Guarda il cielo di settembre.
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, con una collana
sotto il mento sì chiara
che l’oscura,
pallido s’inclina e muore…”
Ma dice Ermione,
non lieta non triste:
“T’inganni. Quella ch’è sì chiara
è la falce
dell’Estate, è la falce
che l’Estate abbandona
morendo, è la falce
che falciò le ariste
e il papapevo e il cíano
quando fioríano
per la mia corona
vincendo in lume il cielo e il sangue;
ed è la faccia dell’Estate
quella che langue
nell’aria lontana, che muore
nella sua chiaritate
sopra le acque
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
dopo che tanto l’amammo,
dopo che tanto ci piacque;
e la sua canzone
di foglie di ali di aure di ombre
di aromi di silenzii e di acque
si tace per sempre;
e la melodia di settembre,
che fanno i flauti campestri
ed accompagna il mare
col suo lento ploro,
non s’ode lassù nell’aria
lontana ov’ella spira
solitaria
il suo spirto odorato
di alga di rèsina e di alloro;
e l’uomo che s’attarda
in tessere vermene
già fece del grano mannelle
ed or fa canestri
per l’uva, con un canto eguale,
e tutto è obliato;
obliato anche agosto
sarà nell’odor del mosto,
nel murmure delle api d’oro;
per tutto sarà l’oblio,
per tutto sarà l’oblio;
e niuno più saprà
quanto sien dolci
l’ombre dei voli
su le sabbie saline,
l’orme degli uccelli
nell’argilla dei fiumi,
se non io, se non io,
se non quella che andrà
di là dai fiumi sereni,
di là dalle verdi colline,
di là dai monti cilestri,
se non quella che andrà
che andrà lungi per sempre,
e non con le tue rondini, o Settembre!”
Gabriele D’Annunzio
(da Alcyone, 1903)
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