Florens, l’arte legge la cronaca con le tre croci e il mosaico in Battistero
Florens rappresenta non solo il tentativo di uno sguardo alto sull'arte. Nei confronti che si stanno svolgendo, l'arte più che occasione di una contemplazione, di una pausa pur necessaria per rinnovare il gusto del bello, è diventata prisma per leggere la cronaca, la piccola e la grande storia, per filtrare le luci e le ombre del vissuto delle città. Quando sotto il mosaico del Battistero Timothy Verdon, Armand Puig i Tàrrech, Sergio Givone e il cardinale Giuseppe Betori, hanno messo in relazione i tre crocifissi di Donatello, Michelangelo e Brunelleschi con il mosaico del Cristo Pantocratore di Coppo di Marcovaldo, risorto ma con le ferite, hanno constatato, per usare le parole di Betori, l’evidenza di quattro narrazioni di Cristo, “una fede che si sente plurale e non riduce il mistero a una definizione”; quindi si sono misurati con una linea comune che il biblista Puig i Tàrrech ha sintetizzato nell'espressione: “La croce è il paradigma dell'amore. Il Padre che in alcune raffigurazioni la sorregge, sostiene il figlio e tutti i figli dispersi nel mondo colpiti dal male”. La croce rimane spesso per loro come “unico e ultimo possesso” e in essi, in modo sorprendente e inaspettato, si colloca Dio, come povero tra i poveri. Ecco perché chi si misura con il Vangelo e Gesù che lo ha annunciato e vissuto, non può stare lontano dalla croce, da cui scaturiscono energie incredibili. Nel Vangelo di Giovanni essa diventa “simpatia con una madre e con un giovane che rimanevano senza il sostegno di Gesù”. Nell’affidare l’uno all’altra, “la madre non perde la sua maternità e il discepolo la sua figliolanza”. Di fatto la Chiesa radicata nella croce mantiene la simpatia per il prossimo. Non è una questione di dolorismo, ma di sensibilità e di intelligente consapevolezza: la croce resta criterio della storia umana.
Givone, sotto il Cristo adolescente di Michelangelo, ha evocato con commozione uno di questi figli: il bambino che a Roma non ha retto a un urto disperante dell'esistenza, le cui origini ancora non sappiamo. Di fronte a queste storie si può potere qualcosa e al tempo stesso non voler fare nulla – la libertà può voler dire anche esercitare la violenza dell'indifferenza - ma si possono anche assumere, per strade di condivisione, quelle ferite e dare vita a una realtà redenta per tutti. Questo è un senso della croce . Dall’indifferenza ad essa si origina il vuoto, dalla sensibilità una luce che dona orientamento e umanità all’esistenza. “Da una parte la realtà annichilita – dice Givone – dall’altra la realtà redenta. Dio ha abbracciato la realtà redenta e respinge il nulla nell’unico modo in cui lo può fare”. Ci si può pensare, in questi giorni, che sono ricomparsi nelle strade non poche persone – giovani, anziane - che chiedono l'elemosina, che spesso non dicono il loro nome perché è l'unica, preziosa, cosa che è loro rimasta. Si capisce allora che il “decoro” non è ignorare ed espellere il povero ma dissipare la povertà in sé e provare a fasciare le ferite che si incontrano, accarezzare quelle croci. Mentre manca poco al primo anniversario della tragedia razzista in cui furono uccisi Samb e Diop, in piazza Dalmazia a Firenze.
Michele Brancale