L'ora di Religione

Quattro pietre d’inciampo e una memoria viva

Livorno ricorda la Shoah giovedì 17 gennaio con le “stolpersteine” di Gunter Demnig di fronte alle case di Franca Baruch, Perla Beniacar, Enrico e Raffaello Menasci. La più piccola non aveva nemmeno un anno. Nel pomeriggio corteo fino alla sinagoga

Risentire i passi, ritrovare il volto. Di Enrico ad esempio, che esce da casa e si incammina col padre per via Verdi, alla ricerca di protezione a Roma, dove invece incontrerà la razzia nazista. Aveva nemmeno 14 anni Enrico Menasci quando fu catturato e incolonnato col padre. Era l'ottobre del 1943. La governante, a Ponte Garibaldi, dichiarò gridando che quello era suo figlio ed Enrico le fu consegnato. Ma dopo poco si divincolò e tornò ad abbracciare il padre, Raffaello, patologo di Livorno, di cui condivise la tragica sorte. La colpa? Essere ebreo, come Franca Baruch e Perla Beniacar, l’una nemmeno un anno e l’altra bambina di nove. Le loro storie, la memoria della deportazione degli ebrei di Livorno diventa “pietra d'inciampo”, spazio condiviso di ricordo, punto di sosta per riacquisire un respiro umano e per ritrovare un impegno, personale e comune, per il futuro di tutti e della città. Con uno sguardo attento al presente, perchè “chi dimentica il proprio passato è condannato a ripeterlo”. Lo ricorda Anna Ajello, presidente della Comunità di Sant'Egidio di Livorno, mentre con Don Piotr Kownacki, direttore del Cedomei e responsabile della diocesi per l’ecumenismo  e il dialogo intrerreligioso, e Mario Tredici, assessore alle Culture del Comune, presenta l'iniziativa che sarà promossa domani, 17 gennaio 2013, in occasione della prossima Giornata della Memoria su iniziativa della Comunità di Sant'Egidio e della Comunità ebraica (con l’adesione della Diocesi, del Comune e della Provincia di Livorno, Cedomei e Istoreco).  La morte di Isacco Bayona, una delle ultime voci che ha raccontato la Shoah, dice della responsabilità che si ha nella città mentre le testimonianze dirette si allontanano e si devono trovare strade che rendano viva la memoria, il volto, la storia degli altri. “Con quest’operazione – sottolinea Tredici – operiamo idealmente e concretamente una restituzione di umanità mentre chi ha voluto la Shoah cercava l’annullamento dell’individuo trasformandolo in numero”. Per don Piotr quella di giovedì sarà un momento di quelli che costruiscono la storia, le danno un’altra direzione, anche come anticorpo a quelle forme di nazionalismo ed etnicismo che sono sempre aggressive e pericolose.

Giovedì mattina 17 gennaio, dunque, lo scultore Gunter Demnig impianterà a Livorno le “stolpersteine”, le pietre o memorie d'inciampo, sanpietrini rivestiti di ottone con il nome e i dati dei deportati ebrei livornesi nei campi di concentramento nazisti.   Saranno impiantate quattro pietre di inciampo dedicate a Franca, Perla, Enrico e Raffaello Menasci.

Alle 16 l’appuntamento in piazza del Comune per una marcia della memoria e una fiaccolata a cui è invitata tutta la città. Dopo un intervento introduttivo, il corteo raggiungerà intorno alle 16.30 via Fiume 2, per la memoria di Franca Baruch. Con uno schema che verrà ripetuto anche in tappe successive sarà letta una breve biografia e verrà deposta una rosa sulla pietra di inciampo.

Seconda sosta, alle 17, al Largo dei Valdesi, per un omaggio della Chiese cristiane livornesi. Vi prenderanno parte, tra gli altri, i pastori valdesi di Livorno e di Pisa Klaus Langeneck e Marco Fornerone, la pastora Lidia Giorgi, della Chiesa Battista, padre Cipriano Calfa della Chiesa romeno-ortodossa, la pastora della Chiesa avventista Stefania Tramutola.

La terza sosta  è prevista alle 17.15, in via Verdi, in memoria di Raffaello ed Enrico Menasci. Alle 17.45 la quarta sosta in via Cassuto 1 (ex via Reale 1), dove sarà ricordata Perla Beniacar.

Infine il corteo raggiungerà alle 18 la Sinagoga, in Piazza Benamozegh, per una cerimonia conclusiva con il Rabbino Yar Didi, il vescovo Simone Giusti, Guido Servi, delegato per la cultura della Comunità Ebraica, il presidente della Comunità di Sant’Egidio di Livorno Anna Ajello e il presidente della Comunità ebraica Vittorio Mosseri.

Durante l’incontro in sinagoga saranno accese sei braccia della Channukiah, in memoria dei sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah.

 

Una breve storia della deportazione degli ebrei livornesi

Le storie di Franca, Perla, Enrico e Raffaello

 

Tra la fine del dicembre '43 e il gennaio del '44, si consuma la deportazione degli ebrei livornesi. Tra loro anche un folto gruppo di famiglie ebree, di origine italiana, che erano state rimpatriate dall’esercito italiano dopo l’occupazione della Grecia nel 1941 e che si erano stanziate a Livorno, probabilmente per antichi legami familiari o materiali con la nostra città. Privi di conoscenza e di radicamento, con pochi mezzi, costoro furono facili prede sia delle leggi razziali che, poi, dei rastrellamenti.

Gli ebrei furono arrestati nelle loro case, per lo più del centro storico, oppure nei luoghi di sfollamento in cui avevano trovato rifugio dopo i bombardamenti disastrosi del maggio e del giugno '43, tra gli altri Gabbro, Guasticce, la montagna pistoiese.

Gli arresti furono tutti opera di fascisti italiani e solo in alcuni casi in collaborazione con i tedeschi.

Infatti, dopo il censimento del '38 e per lo stretto controllo di polizia cui erano sottoposti, gli ebrei, livornesi da sempre o solo di origine, erano tutti conosciuti ed erano altrettanto note la loro residenza o il loro domicilio. Gli arresti furono compiuti su liste e informazioni molto precise, così come su delazione.

 

Franca Baruch

Franca Baruch nasce a Livorno il 19 marzo 1943.

Ha compiuto pochi mesi quando con la madre si trova sfollata al Gabbro, molto probabilmente dopo i bombardamenti del giugno del ’43, e dove viene arrestata il 20.12.1943, durante una retata, su iniziativa del maresciallo della polizia ferroviaria locale.

Franca, di nove mesi, è la più piccola deportata del convoglio per Auschwitz.

Su quel treno per Auschwitz c’era anche Primo Levi che racconta: “Il treno era composto da dodici vagoni merci, ciascuno dei quali era occupato da 45 e fino a 60 persone. Il mio vagone era il più piccolo ed era occupato da 45 persone. Un occupante il mio vagone potè leggere un cartello appeso all’esterno del vagone stesso che portava la scritta “Auschwitz”, ma nessuno di noi sapeva il significato di questa parola, né dove la località si trovasse...Nel nostro vagone c’era un bambino ancora lattante e una bambina di pochi anni...”.

“Il nostro convoglio terminò il viaggio la sera del 26 febbraio, il treno si fermò alla stazione civile della città di Auschwitz . Appena fummo discesi dai vagoni, ebbe luogo una rapidissima selezione: furono formati tre gruppi. Del primo gruppo, a cui io appartenevo, facevano parte 95 o 96 uomini adatti al lavoro; del secondo gruppo facevano parte 29 donne adatte al lavoro; tutti gli altri furono giudicati non adatti al lavoro... Gli uomini validi, di cui io facevo parte, furono trasportati con un camion quella notte stessa al campo di Buna-Monowitz. Il gruppo maggiore, costituito dai non adatti al lavoro (tutti i bambini, i vecchi e le donne con figli, i malati e gli inabili) furono caricati su camion e portati a una destinazione a noi sconosciuta. Solo qualche mese dopo... mi resi conto che gli inabili al lavoro erano stati tutti soppressi nei giorni immediatamente seguenti all’arrivo...”.

Tra loro anche la piccola Franca.

 

Raffaello Menasci

Raffaello nasce a Livorno l’11 febbraio del 1896 da Enrico Menasci e Irma Rignani. Sposa Piera Rossi.

Diventa professore di patologia speciale medica dimostrativa presso l’Università di Pisa, molto stimato; perde la cattedra a causa delle leggi razziali ma continua a vivere tra mille difficoltà a Livorno, da sempre la sua città.

Dopo i bombardamenti del 28 maggio sfolla con la famiglia a Roma, dove raggiunge alcuni parenti, i Piperno. A Roma però, vengono tutti deportati nella razzia del 16 ottobre 1943. Deportato ad Auschwitz muore a Varsavia nel 1944.

 

Enrico Menasci

Figlio di Raffaello Menasci e Piera Rossi, nasce a Livorno il 27 marzo 1931. Arrestato a Roma con il padre Raffaello, la madre e i fratelli, ed altri 1022 ebrei romani, il 16 ottobre 1943. La governante della famiglia Menasci tentò di salvare il ragazzo dalla deportazione: disse ai tedeschi che Enrico era suo figlio e quelli dopo molte urla lo lasciarono. Sul ponte Garibaldi però, mentre la colonna dei deportati sfilava da Portico d'Ottavia verso il Lungotevere, il ragazzo si divincolò dalla mano della governante per gettarsi tra le braccia del padre e fu deportato con la sua famiglia. Muore il 6 febbraio 1944 ad Auschwitz.

Perla Beniacar

Figlia di Moisè Beniacar ed Estrea Levi era nata a Livorno il 19 giugno 1935. Sono ebrei di origine turca, provenienti da Smirne, ma vivono a Livorno da diversi anni, quando cadono vittime della persecuzione.

Perla, a 8 anni, viene arrestata il 25 gennaio 1944 con tutta la famiglia a Borgo a Buggiano, in provincia di Pistoia, su delazione.

Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz, con il convoglio di cui fa parte anche Primo Levi, viene uccisa all'arrivo, il 26 febbraio 1944, insieme ai genitori ed ai fratelli, Bulissa di 16 anni e Giacomo di 11.

La sorella maggiore, Matilde, unica sopravvissuta, ricorda ancora il momento del distacco sul binario morto del campo e il suo nome, urlato dalla sorellina, che non voleva restasse sola.

“Perla era una bambina intelligente – ci ha detto Matilde - , vedeste com’era bella … aveva tutti i boccoli sul viso. Le piaceva tanto andare a scuola. Mi ricordo che quando siamo arrivati al campo e ci hanno diviso, Perla e Giacomo mi corsero incontro…mi venivano dietro…non volevano che soffrissi da sola, ma ci hanno separato e quella è l'ultima volta che li ho visti.”

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