L'ora di Religione

Dal crinale apocalittico alla rivelazione dell’unità. Francesco e Kirill a Cuba

L'incontro di Papa Francesco e del Patriarca Kirill a Cuba è il frutto maturo di una speranza unitiva. Tutti hanno colto che l'evento andava al di là del perimetro pur largo della vita bimillenaria della Chiesa e della sua vicenda nel mondo. Francesco e Kirill hanno infatti uno sguardo geopolitico sul pianeta liberato da interessi temporali. Si muove in questo solco anche il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeos, che ai due "fratelli" si è associato con un messaggio - un tweet - efficace, richiamando la memoria di Athenagoras e Paolo VI.  Sguardo geopolitico, dunque,  e una cultura dalle radici comuni, ora nuovamente convergente  davanti al martirio dei cristiani, soprattutto nel Medio Oriente; ma come non pensare allo stesso Messico (dove l'odio non è quello del fondamentalismo, ma quello della criminalità dei narcos) e ad altri quadranti in cui la violenza prevale su gente disarmata e che sceglie di essere così? E' il volto di una crocifissione diffusa ma anche del Cristo sequestrato. Francesco e Kirill Hanno scritto nella loro dichiarazione: “Chiediamo a tutti coloro che possono influire sul destino delle persone rapite, fra cui i Metropoliti di Aleppo, Paolo e Giovanni Ibrahim, sequestrati nel mese di aprile del 2013, di fare tutto ciò che è necessario per la loro rapida liberazione”. Il riferimento è Paul Yazigi e a Mar Gregorios Yohanna Ibrahim. Lo sguardo sui fratelli che soffrono avvicina il cuore di cristiani che – lo sapevano bene – non possono ignorarsi ma, di più, devono trovare la strada di amarsi nella storia prima e oltre un disegno teologicamente ben congegnato. A uno degli incontri promossi ogni anno dalla Comunità di Sant'Egidio nello “spirito di Assisi”, nel 2014 ad Anversa il patriarca siro ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente Ignatius Aphrem II aveva colpito nel profondo: “Dio è presente in mezzo a noi quando vediamo la speranza negli occhi di un bambino costretto a lasciare la sua casa e la sua città di Mosul in Iraq per un destino sconosciuto. Tale speranza questo bambino conserva perché crede che Gesù Cristo è con lui ed egli non sarà deluso…”. L'unità dipende anche da quel bambino. Anche a lui e a tutti quelli come lui può essere attribuita “una salda fede e una fiducia associata con la speranza” di cui parlava Mar Gregorios nell'incontro di Firenze, nel '95: “Non è facile svolgere questo difficile compito in un tempo in cui l'uomo si allontana dal suo fratello nelle guerre e nelle dispute. L'obiettivo è di salvaguardare la dignità dei popoli, rafforzare le relazioni tra religioni, confessioni e tradizioni, edificare ponti di amicizia e relazione...”. “La mia speranza – aveva concluso - è di vedere lo sforzo dell'uomo andare nella direzione di... una pace giusta che si realizzi in tutto il mondo”. Si è realizzata una “convergenza dei comportamenti” dei cristiani che quattro anni dopo, a Genova, venne indicata da Ignatios IV Hazim, patriarca greco ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente, come risposta alla globalizzazione selvaggia e come strada da percorrere verso la piena unità.

Nell'incontro di Cuba si manifesta un artigianato paziente e articolato di rapporti, al quale non è estraneo – è bene non dimenticarlo – il lavoro di Giovanni Paolo II, non sempre ben compreso nella sua portata. Il suo riverbero si coglie proprio a Cuba, dove Wojtyla incontrò Fidel Castro nel 1998. Cuba è tante cose, ma è tra l'altro il luogo della crisi nucleare del '62 per cui l'umanità venne posta letteralmente davanti all'alternativa dell'essere o del non essere. Il viaggio di Wojtyla fu oggetto di un'approfondita riflessione dell'allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, riproposto un anno fa nel libro 'Uno sguardo su Cuba. L'inizio del dialogo' (ed. Francesco Mondadori, 2015): “La metodologia del papa in questa nuova tappa di trasformazione si centra sul dialogo – scriveva Bergoglio a proposito di Giovanni Paolo II – Seguendo il filo del suo significato etimologico, dialogo vuol dire discorrere, conversare, comunicare la Chiesa e l'umanità. Il papa non assolve soltanto al ruolo di portavoce e trasmettitore della parola di Cristo, ma diventa anche il recettore della voce del mondo, della società umana. Il compito della Chiesa, specialmente quella del vicario di Cristo, è liberare, dialogare e partecipare, per costruire la comunione tra gli uomini e la Chiesa. In tal modo, il dialogo inteso come canale di comunicazione tra la Chiesa e i popoli assurge a strumento fondamentale per la costruzione della pace, per la promozione della fraternità e per la creazione della fraternità”. Sono parole che Bergoglio ha interpretato e incarna come Papa Francesco. “Leggere queste pagine di riflessione sul viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998 – ha osservato Andrea Riccardi – aiuta a capire meglio come Jorge Bergoglio guardasse da tempo con grande attenzione a Cuba e al suo futuro, convinto che la Chiesa dovesse avere un ruolo in questo quadro”. Lo ha avuto nello sbloccare il rapporto tra l'isola e l'America Latina con gli Stati Uniti, grazie all'interlocuzione attenta di Obama e il ruolo di Raul Castro. Lo ha avuto adesso su un orizzonte ancora più largo, riunendo Est e Ovest là dove avevano toccato il momento di maggiore tensione, su quello che La Pira chiamava il “crinale apocalittico della storia”. Crinale che coincideva con un'isola, dalla quale, paradossalmente, venerdì si è parlato di futuro alla Chiesa intera e al mondo intero.

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