L'ora di Religione

‘Life’, donare a Caino il cuore di Abele

Farsi vicini per superare la distanza tra  una dichiarazione e un’attenzione intermittente a una questione capitale. Farsi vicini davvero. Chi scrive ai condannati a morte vede talvolta avverate, con dolore, le parole di Gesù: “Non sempre avete me”. Tuttavia non spesso, ma sempre di più arriva la buona notizia che la sentenza di morte è stata commutata o che il condannato è stato riconosciuto innocente. L'artigianato dell'affetto, della passione civile, cambia la storia, sovverte le consuetudini che René Girard ha individuato, attraverso la lettura dei Vangeli, nel meccanismo rituale e apparentemente sacrale del capro espiatorio. Il cambiamento non grida, ma coinvolge, ha la forza tenace dell'acqua, "è una rete lilliput - secondo il teologo Alfredo Jacopozzi - che disarma un gigante violento". Il cambiamento passa anche attraverso lo strumento non eclatante di una lettera scritta a un condannato, che può essere l'unica cosa “esterna” che arriva, che spezza l'isolamento, che fa sentire un altro, un'altra, vicino. Papa Francesco ha chiesto la sospensione della pena di morte durante quest'anno, Giubileo della misericordia, nell'angelus del 21 febbraio, alla vigilia del convegno internazionale 'Per un mondo senza pena di morte', con ministri della Giustizia, costituzionalisti e parlamentari di 30 Paesi riuniti a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio: “Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà”.
Dunque una misericordia da praticare, un letterale ritorno ai miseri tra i quali non pochi sono i “dead man walking”. Trent'anni fa, il numero dei Paesi che avevano eseguito condanne a morte era di 37. Il numero era sceso a 25 nel 2004 ed è ulteriormente sceso a 22 l'anno scorso. Nell'ultimo quinquennio, solo nove paesi hanno fatto ricorso anno dopo anno alla pena capitale, ma la sua applicazione complessivamente va restringendosi. Nella campagna elettorale statunitense, in corso, si è potuta ascoltare la voce di un candidato democratico esplicitamente contrario alla pena capitale nel suo Paese. Anche questo è un segno di cambiamento, che fa ben sperare.
“Il mondo sta cambiando, rapidamente”, osserva Mario Marazziti, autore 'Life' di Mario Marazziti (Ed. Francesco Mondadori), col sottotitolo 'Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte', che lunedì 29 febbraio verrà presentato, alle 17, nel Consiglio regionale della Toscana, in una cornice nuova, che fa seguito ad un altro incontro svoltosi a novembre presso la libreria Salvemini di Firenze. "Il percorso per fermare la pena di morte - spiega Alessandro Lo Presti, esponente della Soka Gakkai - segna passi avanti. L'azione più semplice, più umile, come la raccolta delle firme per la moratoria all'Onu, può avere conseguenze sui destini del mondo e vince l'idea che non si possa incidere su fatti più grandi noi".
Marazziti attraversa la storia, le religioni, le diverse culture, fa il punto sul movimento mondiale che ha portato il pianeta, oggi, in maggioranza, a rinunciare a quello che è stato definito il “male estremo”. L’autore, con la Comunità di Sant’Egidio, ha lavorato a questo cambiamento.
Leggendo 'Life' sono andato a riaprire una serie di lettere scritte da condannati ai loro corrispondenti, che restituiscono voci di vita mentre tutto sembra perduto per sempre. La voce di Johnnie, ad esempio, che chiedeva nella sua ultima lettera “di pregare per me e per i miei bambini” e per la famiglia della persona che era stata uccisa e che per lui aveva chiesto clemenza: “Continua ad essere chiaro nel chiedere di far finire la pena di morte e sia mostrata misericordia... E' probabile che sia tardi per me aiutarmi ma ci sono molti altri che potrebbero trarre profitto dalla vostra richiesta di mettere fine alla pena capitale”.

Pochi giorni prima di essere ucciso Gesù fu invitato a una cena e a mensa sedeva un suo amico, Lazzaro, che, racconta l'evangelista Giovanni, lui “aveva riscuscitato dai morti” (Gv 12, 1). In quella serata, drammatica per chi sapeva cogliere la tragedia che di lì a poco sarebbe stata consumata, una donna, Maria, sorella di Lazzaro, prese trecente grammi di profumo di puro nardo, “assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell'aroma di quel profumo”. Maria aveva anticipato l'unzione del corpo che sarebbe stato crocifisso.

Quel profumo è anche l'amicizia tra corrispondenti e condannati a morte. Intorno a quella tavola ci sono quelli che parlano e quelli che non hanno la forza di farlo, ma anche il loro silenzio, talvolta molto lungo, è eloquente: dice ancora di più del bisogno di qualcuno che ti stia accanto. Richard lo chiede con convinzione: “Qui si muore un po' ogni giorno. Ogni giorno suona il campanello e potrebbe essere la tua ora: ogni volta che si apre il cancello elettrico non sai se stanno venendo a chiamarti e il cancello si apre dozzine di volte al giorno... Viviamo in luoghi in una cella dove trascorriamo 164 su 168 ore a settimana, nella forma più miserabile di confinamento che c'è, in condizioni che non sono state pensate per la mente umana”. C'è anche Robert, che si vide confermare la pena capitale nonostante non avesse commesso l'omicidio di cui era accusato. Nelle varie lettere si soffermava spesso sulla condizione opprimente di chi era in attesa di morire e non aveva altro pensiero che quello. Alcune delle sue lettere erano veri e propri sfoghi contro tutto il sistema che l’aveva rinchiuso lì, con molte parole appartenenti al dialetto afroamericano, non sempre di facile comprensione. Tutto all’interno del carcere, scriveva Robert, era pensato “per la distruzione dell’anima, della persona, fin nei minimi particolari”. Sottolineava come era importante resistere, “fare una lotta interiore per non subire e rimanere vittime della disumanizzazione del carcere”.

C'è anche Preston che ha proclamato fino alla fine la sua innocenza e ha chiesto alla madre e alla sorella accanto a lui: “Voi sapete che sono innocente e vi amo: vi prego di continuare a lottare per la mia innocenza anche quando non ci sarò più. Offrite a ciascuno il mio amore”.

“Perché è capitato a me e non a qualcun altro? In Africa noi siamo poveri e sento che la disperazione sta bussando alla mia porta”, scrive un condannato da un Paese africano: “... Accoglimi come il tuo figliol prodigo e, per favore, prega per me, che possa trovare pace”.

Quest'ultima lettera è di un uomo che si è salvato, perché il suo Paese ha aderito alla moratoria e la sua pena è stata commutata. Merito anche di una lettera? "La visione di un Dio personale - commentò a novembre Ionut Coman, cappellano ortodosso romeno nel penitenziario di Sollicciano - toglie spazio alla morte. Allora anche scrivere una lettera è come scrivere nel cuore di tutti gli uomini".

comments powered by Disqus