La voce delle vittime
Nei primi mesi del '77 a Firenze furono aggrediti e pestati militanti democristiani. Il 3 aprile furono incendiate alcune sedi della Dc. Il 6 aprile del 1977 Aldo Moro venne a Firenze per partecipare a una manifestazione contro il terrorismo convocata nel Palazzo dei Congressi. “Le libertà le abbiamo create noi- disse Moro in quella circostanza – con il consenso: questa è la via che bisogna seguire, questa è la via che abbiamo indicato e percorso durante questi anni”. La tragedia si sarebbe abbattuta su di lui e sulla scorta meno di un anno dopo. Quanto accaduto a Firenze e le parole offensive sul “mestiere delle vittime” - di chi cioè, di fatto, non può esercitare alcun mestiere perché è sepolto – fanno male perché relativizzano la memoria e il dolore e, in sé, la fatica di preservare e far crescere la democrazia allora tra i due Blocchi determinanti la guerra fredda e dopo nella lunga stagione in cui alle aquile sono succeduti non pochi piccioni e poche colombe. Si può ripartire da quell'intervento fiorentino di Moro, nel corso del quale egli lesse una lettera di Giorgio La Pira. Molto ammalato e impossibilitato a partecipare, La Pira non aveva voluto far mancare il suo sostegno attraverso l'amico con cui aveva avuto un rapporto di amicizia cresciuto negli anni, anche in mezzo a dubbi e incomprensioni. Quelle parole ci sono restituite nel carteggio “Moro e La Pira. Due percorsi per il bene comune” (ed. Polistampa): “Avrei voluto essere con te e con gli amici fiorentini in questo particolare e difficile momento per testimoniare, ancora una volta, come già facemmo insieme in altre tristi periodi, il nostro fermo dissenso verso ogni forma di violenza negatrice di quei valori cristiani umani di libertà e di giustizia che hanno sempre ispirato, e sempre devono ispirare, la nostra azione politica. La negazione o il rovesciamento di questi valori (religiosi, spirituali, morali, culturali, civili e politici) germogliati nel corso dei millenni e riconquistati dopo il lungo inverno storico, attraverso la Resistenza, portano inevitabilmente all'ingiustizia, alla persecuzione, all'oppressione”. “Cosa fare allora – si domandava La Pira - come uomini e come cristiani? Resistere ulteriormente, vincere questi resti di inverno che si attardano, quasi abbarbicati, nella nuova stagione storica. Liberare, a poco a poco, saggiamente ma decisamente, queste residue zone d'inverno che ancora esistono nel nuovo spazio storico di primavera. Dobbiamo in ogni modo garantire, ai giovani in particolare, condizioni di piena giustizia, di lavoro sicuro e di fratellanza, nella salvaguardia puntuale di ogni espressione piena del pluralismo politico, culturale e civile. Grazie di essere venuto a Firenze”. Le indicazioni sono chiare, ma anche la cifra interiore sui cui levigarsi: “A poco a poco, saggiamente ma decisamente”. E' la strada degli artigiani della pace, credenti e non, di fronte agli inverni della storia, anche di questa nuova stagione storica, di questo “cambiamento d'epoca”, come ha detto Papa Francesco, in cui l'inverno appare poco residuale ma tanti costruiscono la primavera nel profondo, come gente del sottosuolo che opera tenacemente con testimonianze convinte e disarmate (le scuole di italiano ad esempio, i diversi ambiti di convivenza e crescita che passano inevitabilmente per diverse forme di istruzione). Era questa attitudine di La Pira, certamente la sua testimonianza di fede apparentemente ingenua, che aveva colpito Moro. “Negli ultimi giorni di vita – spiega lo storico Augusto D'Angelo - segregato dalle Brigate Rosse e ormai consapevole della fine imminente, Moro scrisse alla moglie una lettera – quasi un testamento – che non venne recapitata e fu ritrovata solo nel 1990, ed in essa confessava : 'Ho pregato molto La Pira. Spero che mi aiuti in altro modo'. Come La Pira aveva riconosciuto in Moro lo statista, così Moro riconobbe in La Pira il santo”.