L'ora di Religione

Bisogno di “pacefondai”

Poco più di cento anni fa è finita la Prima guerra mondiale; ora l'anniversario potrebbe essere archiviato. “Sembra che noi non impariamo”, ha detto Papa Francesco ricordando la fine di quell'inutile strage. Viene da domandarsi quanto di quelle vittime ci fa pensare, pregare, ricordare in modo vero, mentre sono più invadenti la corsa e la prossima cosa “urgente”. Per reazione proviamo a fermarci davanti a quelle targhe che si incontrano ogni tanto in strade, paesini, davanti alle chiese; proviamo a leggere i nomi, a immaginare i volti.

La guerra mondiale fatta a pezzi, qua e là – ed è con questo sfondo che vanno lette le migrazioni – è figlia di questo “non imparare”. Certo non è solo così. Quelli che si opposero al conflitto venivano ridicolizzati come “panciafichisti”. Chaplin, contrario alla leggerezza con cui si andava al fronte, venne attaccato brutalmente e lui replicò: “Sono un pacefondaio”.

Ci sono molti pacefondai in più oggi. Forse si vedono di meno, ma ci sono. La pace è associata a chi condivide, a chi sta in solido dalla parte degli scarti e della memoria, anche a chi ricorda che di quella parte della storia, di quella bruttissima storia, fecero parte quarantasettemila toscani che non tornarono più (uccisi in conflitto o morti per effetto di malattie e mutilazioni). Alcuni dei loro volti, insieme a quelli di chi sarebbe tornato, li abbiamo visti in mostre e rievocazioni, come “Addio mia bella addio”, a Chiesanuova.

La buona politica è al servizio della pace” è il cuore del messaggio di Papa Francesco per il I gennaio 2019, giornata mondiale della Pace: è certo un'indicazione chiara, per certi versi disarmante, per chi ha responsabilità pubbliche ma dimentica, con aggressività e in nome di convenienze di breve periodo, uno sguardo largo sulle città, sulle persone, sulla tenuta di una vita pacifica, dignitosa, in cui centro e periferia sono riconciliate, in cui sulla memoria non si deve depositare polvere, un po' come sulle lapidi. Per alcuni l'anniversario della fine della Prima guerra mondiale ha rappresentato la possibilità di riacquisire ricordi, nomi di cari, di sapere che non si vive in un eterno presente. Tra le tante pubblicazioni, Monica Ciampoli ha curato un diario di pagine ritrovate di Ottavio Martini, di Lucolena, conservate da sua nonna che ne aveva raccomandato la custodia dopo di lei. Sono pagine in versi, che risentono di uno stile talvolta aulico, ma ogni parola è autentica, scavata nella pelle e nel cuore e non a caso poste sotto il titolo de 'Il tramonto del sole': “... Monto sul treno al Campo di Marte, che mi trascina in dialetti strani”, verso l'inferno del fronte del Carso e, poi, verso l'epilogo dell'amore della sua vita ('L'ultimo addio'). Anche Giovanni Michelucci, le cui pagine di Diario vengono vendute dagli ambulanti per strada, in un libretto che evoca nel titolo gli angeli, racconta la sua “grande guerra”. Giovane ufficiale a cavallo, giunge al fronte poco prima che scoppi la guerra. Si perde e si trova davanti i fanti austriaci. Li saluta amabilmente e chiede loro informazioni su dove siano le linee italiane. E loro, altrettanto cortesi, gliele indicano. Manco fosse un gioco, uno scherzo. Le guerre cominciano così, a tavolino, con qualche schema e stime di possibilità. Circa 80 anni dopo la prima guerra mondiale, si sono celebrate le “guerra chirurgiche” - quelle che sembrano in tv come fuochi d'artificio sul cielo di Baghdad - e abbiamo visto come è andata a finire, anzi gli esiti sono ancora incerti. Presentare, prego, il conto a chi ci ha guadagnato.

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