Un altro respiro: “Vivere insieme è il futuro”
Provare, almeno per un attimo, a cogliere il respiro delle cose, i segnali che rimettono in gioco schemi consolidati per la forza, temibile, delle semplificazioni e della pigrizia. Torna allora un altro respiro. Il premier italiano Mario Monti da Cernobbio vola a Sarajevo, dove partecipa al meeting interreligioso della Comunità di Sant’Egidio e, a margine di una sua visita al Parlamento di Bosnia, interpreta la geografia e la storia per un messaggio unitivo. Se da una parte, infatti, c’è nei Balcani una situazione ambientale che rappresenta “l’esempio stesso, in forma acuta, di cosa vogliano dire i reciproci rigetti tra etnie e religioni”, d’altra parte “qui e in luoghi martoriati di recente la prospettiva di entrare nell’Ue è un fattore potente per indurre le diverse anime in conflitto tra loro a cercare pacificazione e convivenza armoniosa”. Ne discende un utile esercizio di separazione tra pensieri ed emozioni immediate, utile a guardare lontano e insieme. Giustamente infatti non si devono sottovalutare “tendenze, in diversi Paesi, di popoli dentro l’Europa ad armarsi - per fortuna solo psicologicamente ma è già grave - gli uni contro gli altri”. Se questa è l’analisi, d’altra parte non manca la proposta: si lavora per la crescita, altrimenti è a rischio “un’Europa più solida, più equa, più accettata dai cittadini”. Sono parole di un uomo di economia e umanista, che combatte una crisi non solo economico-finanziaria, ma “una crisi più profonda di quanto si possa pensare, che mina le basi di quell’umanesimo attorno al quale è nata e si è sviluppata la costruzione europea”. Anche nell’economia “si sente il bisogno di sconfiggere ogni visione particolaristica e rassegnata, per acquisire una visione comune del futuro".
Ci sono più livelli per vincere un destino di rassegnazione e per realizzarne un altro, riassunto nel titolo dell’incontro di Sarajevo: “Vivere insieme è il futuro”. In un confronto tra diversi interlocutori cristiani – dal patriarca serbo ortodosso Irinej al cardinale Kurt Koch al metropolita russo ortodosso Ilarion – è emerso il volto dei poveri a diverse latitudini: quelli resi tali dalla guerra nei Balcani, quelli investiti dall’aggressività dei mercati, come in Grecia, i senza fissa dimora che rischiano di morire congelati per le strade di Mosca, e ancora, i contadini africani e i perseguitati. E ciascuno di loro ha parlato di come è possibile farsi vicini, certo in nome di una radice interiore iscritta nella fede (aspetto sottolineato con efficace chiarezza da mons. Marco Gnavi, della Comunità di Sant’Egidio), per dare un nome agli altri e risollevarsi insieme. E’ una strada accessibile a tutti. Ilarion ha raccontato di come la Chiesa ortodossa russa abbia dato vita a un’associazione a cui, insieme ai cristiani, prendono parte non credenti, musulmani ed ebrei, per andare a trovare i malati. Se Gnavi ha evidenziato come la Chiesa ortodossa russa si sia riappropriata dello spazio della carità, sottrattole del potere sovietico proprio per indebolire la presenza della chiesa tra la gente, Ilarion ha definito altri tratti di questa riappropriazione: la creazione di uno specifico dipartimento, le collette per gli ortodossi colpiti da calamità naturali (in Giappone ad esempio), il servizio per le strade delle grandi città russe per sottrarre al congelamento e alla morte tante persone, la raccolta di fondi per i carcerati. Sono espressioni di quell’ “eroismo della carità” che è accessibile a tutti e che fa futuro.