E’ successo ancora. A due settimane dalle elezioni presidenziali afghane del 5 aprile i talebani hanno deciso di colpire nuovamente _ dopo l’attacco alla Taverne du Liban del 18 gennaio che fece 21 morti _ un obiettivo che gli garantisce visibilità internazionale, in modo da far passare il messaggio che nessun luogo è sicuro a Kabul (e quindi l’intervento internazionale è stato inutile). Stavolta l’obiettivo è stato il Serena, l’hotel a 5 stelle nel quale sono ospitati funzionari stranieri, giornalisti e uomini d’affari e che è frequentato anche dai politici e dalla piccola classe media afghana, che spesso ne affolla il ristorante.

Il Serena _ già attaccato nel 2008 _ è una fortezza: protetto da barriere antiesplosione in cemento e da un doppio portone di ferro sul perimetro esterno, ha un accesso pedonale con metal detector (integrato da ispezione manuale) protetto da non meno di quattro addetti alla sicurezza. Ha uomini armati, equipaggiati con giubbotti antiproiettile. Ma questo non è bastato ad evitare l’ennesimo attacco. Ieri, poco prima delle 21, ben quattro giovani attentatori sono giunti nella struttura alberghiera nascondendo delle piccole pistole nei doppiofondi delle scarpe o nei calzini, sono entrati nella hall, e si sono diretti sulla destra, verso il ristorante, dove gli avventori festeggiavano il Nowroz, il capodanno persiano.

Una volta nel ristorante hanno tirato fuori le pistole e hanno iniziato a giustiziare i commensali. Risultato, nove morti _ 5 afghani, due donne canadesi che lavoravano con associazioni non governative, un ex diplomatico paraguaiano che era in Afghanistan come osservatore delle elezioni e un americano _ e sei feriti. Più i 4 attentatori, che sono stati uccisi dalla polizia dopo tre ore di sparatoria. Tra le vittime, anche un mio amico, un collega afghano che dal 2003 era la colonna dell’ufficio di Kabul dell’Agence France Presse (Afp) e l’animatore di Kabul Pressitan, il cui accout twitter e la pagina facebook era ben noto a tutti i colleghi che hanno lavorato a Kabul. Si chiamava Sardar Ahmad (nella foto con una delle figlie, Nilofar, e il suo bambino, Omar), aveva 40 anni ed è stato ammazzato assieme alla moglie e alle due bellissime figlie, uccise con un colpo alla testa, mentre il figlio, un bimbo di tre  anni, è gravemente ferito. La perdita di Sardar e della sua famiglia mi addolora e mi indigna.

Sardar era un giornalista rigoroso e pieno di energia, umano, sensibile, disponibile e pieno di fonti. Che amava scrivere non solo di guerra, come dimostra il suo ultimo articolo sul nuovo leone dello zoo di Kabul. Lo hanno ammazzato dei macellai talebani a cuoi manca sempre più il coraggio di affrontare le truppe dell’esercito e della polizia afghane, o, peggio, quelle straniere, e che con ordigni improvvisati e attacchi kamikaze se la prendono con i civili, afghani e non. Civili che ammazzano anche se sono dei bambini. Facile prendersela con “soft target”, usandoli per fare propaganda.

Vili e fanatici questi manovali dell’orrore vorrebbero riportare il loro paese ad un oscuro medioevo intriso di violenza e in mano al peggior radicalismo. Per fermarli non bastano le armi, serve più di ogni cosa l’impegno civile e politico. Mi auguro che partecipando in massa alle prossime elezioni e mobilitandosi contro corruzione e fanatismo gli afghani glielo impediscano. La difesa del loro Paese e la sua rinascita è ora più che mai nelle loro mani.