Trinci. Chi salverà Pinocchio?
Firenze, 16 maggio 2012 - «C’era una volta un bel pezzo di legno, / di quelli da catasta che in inverno / uno sull’altro fanno un bel disegno». Così comincia la storia, che è quella del mitico personaggio del capolavoro per l’infanzia e per l’intera umanità di Collodi. Ma è un Pinocchio in versi, in endecasillabi, quello che Giacomo Trinci ha intitolato Autobiografia di un burattino e qualche anno fa ha dato alle stampe sotto gli auspici congiunti della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e della Fondazione Collodi.
Tutti conoscono Pinocchio, ma non tutti sanno che Trinci – pistoiese, classe 1960 – è uno dei più interessanti poeti italiani d’oggi. I titoli del suo lavoro sono numerosi: a partire da Cella, la splendida opera prima del debutto, a Resto di me e Senza altro pensiero, passando per Voci dal sottosuolo e quella Telemachia che tanto affascinò Giovanni Raboni. E si aggiunga a queste raccolte una cospicua attività di traduttore, che spazia da Agrippa d’Aubigné e Suor Juana de la Cruz ad Adonis e alla poesia araba antica.
Trinci è un «metricista»: un poeta che nella metrica trova la possibilità di essere attuale, contemporaneo. Anche Pinocchio diventa per lui moderno e praticabile passando per questa scelta, la cui portata certo non si esaurisce nell’abusata categoria del postmoderno, tanto meno nel puro formalismo. Così, ad una prima parte dell’Autobiografia in terzine, fra Dante e Pascoli, fa riscontro, con analoga perizia rappresentativa e disvelante, una seconda in ottave, come nella nobile tradizione cavalleresca e nei cantari.
Né più né meno di come articola il racconto, la forma metrica scandisce poi il discorso autobiografico burattinesco, proponendo al lettore un Pinocchio sempre più estromesso dal pur instabile, ambiguo e slittante mondo dei sogni e dei fiabeschi accadimenti in cui si muove (tutti a valenza simbolica, ma non pedagogica come nell’ottocentesco Collodi), a favore di un realistico ingresso in quello che con Montale definiremo «il mondo degli adulti». Fine dell’infanzia, appunto, senza fate turchine e senza geppetti, senza illusioni e senza consolazioni, e invece con tante responsabilità cui dovere rispondere e tanti guai cui non dovere soccombere. Chi salverà Pinocchio? Chi ci salverà?
Marco Marchi
Da «Autobiografia di un burattino. Pinocchio in versi»
Canto IV
La vita per Pinocchio è tutta salti
adesso, e corse, e campi, e verde mondo;
e non vedeva intorno che gli smalti
dei muri vecchi da saltare a fondo,
e i fossi, e i pruni tenerini e vivi,
e i greppi altissimi, che nel giocondo
tornado superava, là oltre i rivi.
Salta salta la vita, arrivi sempre
a casa, e dopo aver percorso privi
di peso campi e fossi torna sempre
la forza delle cose a farti suo.
Pinocchio spinge l’uscio come sempre,
entra e si butta in terra, e il fiato suo
rimbomba nella stanza ormai deserta;
mai dalla contentezza il fuoco tuo
hai sospirato, come quando certa
d’averla fatta in barba è la tua gioia;
che pure durò poco, perché esperta
di un’uggiosa pena, a furor di noia,
stanca e vecchia una voce di lontano
colpì del burattino il fil di gioia.
Monotona e sottile, piano piano,
sembra lo scricchiolare di una sedia,
se qui sedia vi fosse, e non un vano
arrampicare di fastosa inedia
per muri marci, trucioli, e corbelli;
- Crì-crì-crì! - come una stessa commedia,
sera qualcuno sui puntelli
recitava a se stesso, ed or Pinocchio
si voltò impaurito verso gli appelli strani:
- Chi è che mi chiama? - Son io! -
e un grosso grillo vide sulla crosta
del muro salir lento, acceso l’occhio
stanco come una lanterna indisposta
alla luce, ma chiara: - Sono il grillo
parlante a vuoto, e tengo qui nascosta
la coscienza dei morti, ogni cavillo
abbandonato e vivo da mill’anni. -
- Ora vorrai farmi dormir tranquillo! -
disse Pinocchio già dentro gli affanni;
- Questa stanza è la mia. Vattene dunque! -
- Per quanto sappia già che tu mi scanni -
disse il Grillo lontano - sappi dunque
l’acuto denso vero che è qui posto
e che ti metto avanti: da chiunque
sarai spinto a perdonarti, scomposto
di ragione ogni elemento, non avrai
che l’amaro, e il dolore ben disposto -
ai peccati del mondo! - Pinocchio mai
si era sentito cosi offeso in pieno,
e disse al Grillo: - Pensa un po’ ai tuoi guai!
Io voglio i miei mattini, l’alba, il fieno
di ogni giorno, sregolarmi nei sensi,
partir da qui per sempre, dal terreno
piagato dal dovere, dai melensi
frutti delle scuole, perché mia scuola
è il vento, l’aria che mi porta ai densi
giochi delle farfalle; e la tua gola
secchi dell’aspro succo di tue note.
Il Grillo prese luce dalla stuoia
di sciocchezze che giravan le ruote
mentali di Pinocchio, e disse allora:
- Povero grullo! Queste son carote
per tenerti ben schiavo, sotto prora
ad ogni padrone, come un somaro. -
- T’ammazzo, Grillo! - gli gridava ancora
il burattino duro, e dentro il chiaro
lumeggiare del grillo si affannava
la morte e la saggezza, come un riparo
estremo: - Puoi trovar dentro la cava
di un mestiere, l’onore o il disonore,
fa lo stesso se catena t’inchiava. -
Pinocchio disse: - Schiava del sudore
non sarà la mia vita, ma soltanto
del mangiar, del dormire e dell’ amore. -
Dalla sua morte il Grillo n’ebbe un pianto:
- Ho pena assai per te, ché sei già vinto!-
Il burattino sente l’arma intanto
che gli monta da dentro il corpo finto:
- Bada, t’ammazzo! - e già con il martello
spiaccicata ha la testa sullo stinto
muretto, ha sangue ed ali sul cervello.
Lo colse dopo averlo già ammazzato,
col suo crì-crì-crì, spiro di ogni uccello.
Lì sopra poi rimase appiccicato.
Giacomo Trinci