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Anniversario per Giovanni Giudici

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Giovanni Giudici

Firenze, 23 maggio 2012 – Si inaugura oggi presso l’Università degli Studi di Milano, con folta partecipazione di critici e letterati, un convegno dedicato alla figura e l’opera di Giovanni Giudiciclasse 1924, nato a Le Grazie, Portovenere, in provincia di La Spezia, scomparso un anno fa nella notte tra il 23 e il 24 maggio –, presenza centrale e ineludibile della poesia italiana del secondo Novecento.

Mi piace ricordarlo, Giudici, così come lo incontrai (non solo per via cartacea, ma prima strettamente cartacea) negli anni Settanta, quando le raccolte d’annata segnalabili tra i poeti pressoché suoi coetanei erano – nel 1977 e tutte edite nella stessa collana mondadoriana dello «Specchio» che pubblicava lui – Marzo e le sue idi di Bartolo Cattafi, Transito con catene di Maria Luisa Spaziani e Sinopie del ticinese Giorgio Orelli.

L’occasione era fornita da Il male dei creditori, un libro che già definivo a quel tempo, senza incertezze, «notevolissimo»: un libro «totalmente contemporaneo, a suo modo esemplare come pochi altri di un’idea stessa di poesia italiana ancora praticabile». La poesia era già allora, come correntemente si sosteneva, in crisi, ma Giudici dimostrava di attraversare quella crisi, rifacendosi all’esempio primonovecentesco – richiamato peraltro da uno dei suoi primi interpreti, Franco Fortini – di Gozzano e dei crepuscolari, per farne subito, però, non reperti archeologi in chiave culturalistica, ma elementi di confronto, tappe di un necessario cammino intuito comune: umanamente comune.

Sta di fatto che con il suo quarto libro Giudici già mi appariva rivendicare a proprio merito la saldatura perfetta tra i modi dell’antieroico intimismo di sapore crepuscolare e quelli di una socialità allo scoperto, assestando così, ex novo, con originalità e prima ancora con assoluta necessità, i dissestati equilibri della sua evoluzione lirica. Con Il male dei creditori il poeta giungeva alla riconciliazione (anche stilistica) con la realtà che avvertiva tanto oppressiva e repressiva solo in rari e miracolosi momenti, mentre per il resto era ed espressivamente si dimostrava in rapporto di disperata resistenza.

Riappropriandosi di un timbro montaliano per suo conto storiograficamente proveniente dalle zone di un crepuscolarismo superato, Giudici poteva già difendersi, interrogando senza infingimenti i fluttuanti decori del nostro vivere quotidiano:

Quale mai colpa è la mancanza di gloria nell’insetto?
E perché tenere a vile il sorriso dell’astante
Che appena scantonando si salva con la sua roba? (Animale antico).

E ancora, in riferimento a modelli familiari, genitoriali, crepuscolarmente riconducibili ad ambiti psicologicamente circoscritti e protettivi:

Doctor Subtilis... Anche lui scriveva il nulla
Anche lui rinviava tutta la vita a domani.
Con quella prestidigitazione di segni
Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.
Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi
Verso il finire dei margini a farsi incerti
La forbita sintassi a guastarsi.

Fino al delirio d’inchiostro e a indirizzi sbagliati. (La sua scrittura)

Marco Marchi

La vita in versi

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

Giovanni Giudici

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