A grande richiesta. L’ ‘Ultima preghiera’ di Giorgio Caproni
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Firenze, 20 giugno 2012 – Di Giorgio Caproni – il poeta di cui Livorno, sua città natale, ha da poco ricordato il centenario della nascita – vorremmo presentare al lettore non un testo ritenuto significativo, ma una vera e propria antologia della sua poesia, talmente amiamo quei versi che hanno fatto di lui una presenza protagonistica della letteratura del Novecento: da Preghiera e Ultima preghiera, Eppure e Ad portam inferi dei materni Versi livornesi del Seme del piangere al paterno (per compensazione degli affetti) L’Idalgo, dallo strepitoso Il becolino al celebre, affabulante e pianamente commosso Congedo del viaggiatore cerimonioso, da Le biciclette alle genovesi Stanze della funicolare, anche a voler tacere di quella sua ultima eccezionale stagione, deliberatamente essenziale e spolpata, povera e così filosofica, che ci ha dato libri come Il Conte di Kevenhüller e Res amissa.
Con o senza il suo poeta, d’altronde, e al di là di ogni scadenza anniversaria legata all’esistenza di un uomo e al suo ricordo, è la poesia stessa a riconfermarsi protagonista: lei in cerca di musica, di dizione, di creazione del reale, magari tra un motivo già scoperto e un libretto già dato, Weber e Il franco cacciatore, Verdi e un’aria della Traviata.
Scriveva Pasolini, il poeta della «disperata vitalità» faccia a faccia con il poeta della «disperazione calma»: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa». Ed è davvero così: la figura e l’opera di Caproni restano a non farci perdere la vita: a ricordarcela nei suoi significati più alti e degni di essere vissuti, magari – come ai poeti piace – ancora invocando l’«anima».
Marco Marchi
Ultima preghiera
Anima mia, fa' in fretta.
Ti presto la bicicletta
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nei buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando:
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisterone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
Giorgio Caproni
(da Versi livornesi, in Il seme del piangere, 1959)