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Testi a fronte. D’Annunzio e Montale, ‘Meriggio’ e ‘Meriggiare’

VEDI I VIDEO «Meriggio» di D'Annunzio , ... e "Meriggiare pallido e assorto" di Montale letti da Roberto Herlitzka

Eugenio Montale

Firenze, 9 novembre 2012 – Testi a fronte, come indicato nel titolo del post. Ma prima, per bene procedere, poeti faccia a faccia, da paragone tra loro, e non per il momento gli annunciati D'Annunzio e Montale con relative scritture su tema meridiano, ma Ungaretti e Montale.

Poco contano in questo senso i tutt'altro che cordiali rapporti biografici che intercorsero tra i due poeti, personaggi mai troppo amatisi, concorrenziali com'erano nell’aspirare ciascuno con buone ragioni al primato nel quadro della poesia italiana del Novecento di cui facevano parte. Importa invece notare come  nelle opere che Ungaretti e Montale ci hanno lasciato  le vie della poesia si divarichino: sensibilmente, e fin dal momento del loro ingresso nella scena letteraria.

Ungaretti esordisce poco prima di Montale e lega il suo nome ad Allegria di naufragi, del 1919, che a sua volta sussume i componimenti del precedente Porto sepolto, apparso in sole 80 copie nel 1916. Montale sei anni dopo rispetto all'Allegria, nel 1925, pubblica Ossi di seppia (ma già nel 1916, all'epoca del Porto sepolto, stilava i versi di Meriggiare pallido e assorto).

Le strade si presentano subito diverse, nel senso che Ungaretti pensa con fiducia di tipo avanguardistico di poter sillabare da zero la lingua italiana, dando espressione al suo nuovo modo di porsi in contatto con la realtà: la possibilità intravista dal poeta di poter fare a meno in qualche modo di una tradizione della poesia italiana giunta fino agli anni della prima guerra mondiale, e la possibilità alternativa, in una situazione dolorosamente eccezionale, tragicamente straordinaria come la guerra, di ricominciare a «pronunciare il mondo», di riprovare ad essere originari e innocenti. Una fiducia probabilmente incoraggiata in Ungaretti dal fatto di provenire da Alessandria d’Egitto (di là proveniva anche, ricordiamolo, il fondatore del futurismo Filippo Tommaso  Marinetti), di essere uno «spatriato» geograficamente ed autobiograficamente accertabile, sufficientemente distante da una vicenda letteraria secolare, che invece un poeta come Montale ha sempre sentito parte viva e operativamente efficiente della sua poesia e prima ancora della sua stessa formazione culturale.

Montale oppone alla scelta rivoluzionaria e dirompente, radicalmente e potentemente rivoluzionaria e propriamente avanguardistica  di Ungaretti alla ricerca di un paese e prima ancora di parole innocenti, un libro come Ossi di seppia, che un critico come Pier Vincenzo Mengaldo, ha definito con efficacia documento di «conservatorismo linguistico»: una poesia, quella degli Ossi, che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente al suo atto linguistico provato, che intrattiene con quella tradizione linguistica forti legami. Potremmo dire – semplificando e quasi ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che Ungaretti aveva scritto – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. (Quello stesso Ungaretti, tuttavia, che si dimostrerà pronto poi, con Sentimento del Tempo, a rivedere questa sua posizione).

Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia dichiara al contrario la sua derivazione, rivendica una imprescindibile dipendenza di tipo storico-linguistico dalla poesia che lo ha preceduto: modelli formali preesistenti con cui intrattenere di necessità relazioni e che per via di valutazione, attraversamento e superamento consentano esiti originali.

Sta di fatto che senza la lezione linguistica e formale di Gabriele D’Annunzio (ma si pensi anche a Pascoli e allo stesso Carducci) gli Ossi di seppia non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Una continuità di tipo linguistico-formale non implica del resto necessariamente una continuità di tipo ideologico. Proprio nel 1925, sul periodico torinese «Il Baretti», Montale dichiara, rivendicando al proprio operato consapevolezze: «Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che per rifar la gente». Prese d'atto e prese di distanza che consapevolmente fondano la pronuncia di Ossi di seppia, della sua poesia scabra ed essenziale, dell’uomo che non può andarsene «sicuro», del «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari», del «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo».

Un esempio probante di quanto abbiamo cercato di indicare potrà scaturire dal confronto che proponiamo, sulla base di occasioni  poetabili analoghe come quelle di una fruizione meridiana e sulla base di un codificato e per suo conto straordinarimente innovativo linguaggio poetico come quello del poeta di Alcyone: un linguaggio che già modernamente fornisce a Montale, a ben vedere, una serie di diversamente funzionalizzabili soluzioni fonosimboliche aspre («E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca, /del ginepro: io son nel fuco...») degne del suo prossimo «meriggiare»: non  in faccia al mitico Tirreno, ormai, ma tra i dimessi confini di un quotidiano e del tutto novecentesco orto ligure.

Marco Marchi 

Meriggio

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l'isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d'aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l'oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m'abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s'indora dell'oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell'onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s'affina.

E la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

Gabriele D'Annunzio

(da Alcyone, 1903)

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
s
chiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
s
piar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche. 

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
d
i cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
s
entire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale 

(da Ossi di seppia, 1925)

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