Firenze, 31 agosto 2014 – Imbattibile! Come già avvenuto nel 2013, è di nuovo Cesare Pavese con la sua giustamente celebre poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi a trionfare, distanziando con le sue preferenze raccolte ogni altro partecipante alla kermesse. Al post Anniversario Cesare Pavese 1950-2014, che qui riproponiamo accompagnato come di consueto dai vostri commenti, fanno corona sul podio Notte di San Lorenzo con Giovanni Pascoli L’arabesco di Dino Campana.

Un bel secondo posto occupato da un un classico della poesia italiana italiana fra Otto e Novecento (il testo cult votatissimo era, ricorderete, il celeberrimo X Agosto), e un terzo posto con un outsider primonovecentesco diventato anch’egli, con il tempo, fugando ogni sospetto ed ogni resistenza nutriti nei suoi confronti, un classico del nostro Parnaso! Un ottimo risultato di cui rallegrarci, insomma. 

E tra i commenti dei lettori piace stavolta segnalare quello di m (sappiamo chi è, ci segue, pensate, dalla Germania), che, rivolgendosi a Pavese in forma epistolare e chiamandolo per nome, affabilmente ed efficacemente afferma: Caro Cesare, scusa se gioco con un titolo tuo, la tentazione è stata troppo forte… Ormai è molto che te ne sei andato, tante cose sono accadute, tante parole sono state scritte. Eppure tu rimani uno dei piu grandi, anche se forse non tutti se ne sono accorti, magari perché non sei di loro di gusto (non ti preoccupare, succede anche ai migliori), magari perché ti amano o ti odiano dalle sponde sicure ma anguste di qualche isoletta teorico-ideologica… e tu invece hai volato alto, fin dove a un certo punto ci si brucia. Ma credimi: anche solo leggerti è giocare col fuoco.

A domani, con il testo formidabile di un grande della poesia mondiale ad apertura delle nuove notizie di settembre!

Marco Marchi

Anniversario Cesare Pavese 1950-2014

Firenze, 27 agosto 2014 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, la notte tra il 27 e il 28 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavoraae stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 

(da Verrà la norte e avrà i tuoi occhi, 1951)

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I VOSTRI COMMENTI

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
I novenari di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, intensi e drammatici, possono essere considerati i versi di addio che Pavese ha lasciato come pesante eredità ai suoi contemporanei e a tutti noi: risalgono infatti a pochi mesi prima del tragico epilogo di un’esistenza vissuta all’insegna di conflitti e antitesi che non potevano trovare composizione. In questi splendidi versi, densi e non di rado oscuri, Pavese accosta ossimoricamente elementi antitetici che ci svelano attraverso la forza espressiva della poesia come la vita sia un ossimoro inconciliabile essa stessa: la donna e l’amore, simboli di vita, divengono elementi di morte, gli occhi dell’amata, che dovrebbero veicolare emozioni e sentimenti diventano simbolo di incomunicabilità e di silenzi. “I tuoi occhi/saranno una vana parola/un grido taciuto, un silenzio”. E vivere è morire, perché la morte “ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo”. E questa verità vale per tutti, “per tutti la morte ha uno sguardo”, tutti “scenderemo nel gorgo muti”. Ermione.

framo
Chi ha vissuto il dissolversi di più di un grande amore (in molteplici forme), e non conta l’età, non può che restare sedotto da questo testo inarrivabile – più oscuro di quanto sembri a una lettura frettolosa – e ciò accade perché ogni volta rinnova emozioni e pensieri profondi e “ci rivela nella nostra nudità, miseria, inanità, nulla”. Grazie.

m
“To C., from M.”
Caro Cesare, scusa se gioco con un titolo tuo, la tentazione è stata troppo forte… Ormai è molto che te ne sei andato, tante cose sono accadute, tante parole sono state scritte. Eppure tu rimani uno dei piu grandi, anche se forse non tutti se ne sono accorti, magari perché non sei di loro di gusto (non ti preoccupare, succede anche ai migliori), magari perché ti amano o ti odiano dalle sponde sicure ma anguste di qualche isoletta teorico-ideologica… e tu invece hai volato alto, fin dove a un certo punto ci si brucia. Ma credimi: anche solo leggerti è giocare col fuoco.

Pecchio
Una poesia che ha accompagnato la vita di molti. Letta nei banchi di scuola: amata per l’intensità, la sofferenza, la consapevolezza.

Aretusa Obliviosa
La morte non per tutti è l’ultima stazione del viaggio. Per chi, come certi poeti, ha qualche diottria in più, durante il viaggio la morte è compagna, che si lascia scorgere e sorprendere in un gesto, in un attimo, in qualsiasi oggetto così come in un simulacro, anche in un sasso raccolto per strada, al di là del velo, dietro la tela di ragno, oltre un muro sovrastato di cocci di bottiglia, nell’anello o nella maglia che non tiene, oppure nell’inatteso e inopportuno riflesso di uno specchio. Questa inquietudine, questa quotidiana dose di angoscia non è se non l’amaro assaggio della certezza del definitivo Nulla.

Giulia Bagnoli
Se potessi salvare soltanto una poesia salverei questa, intima e tragica, del grande Cesare Pavese. La vita non perdona chi tenta di rubarle il mestiere. Cito a memoria le parole di chi l’aveva fatto: rubare il mestiere alla vita.

Duccio Mugnai
Una contraddizione lacerante sta alla base dell’opera e della poeticità di Pavese. E’ vero, c’è la dichiarazione che “ripeness is all”, ma c’è anche la registrazione dell’impossibilità del controllo, del sopravvento di forze oscure, maligne e demoniche. A parte la produzione poetica mi viene in mente la descrizione del deserto al tramonto in “La luna e i falò”, con i terribili e selvaggi ululati dei lupi, oppure, sempre nella stessa opera, l’aberrante violenza finale, specchio di contraddizione di fronte alla giustizia della Resistenza e all’enigmaticità straziante  dell’esistenza. Così, in questo componimento gli occhi amati e vagheggiati diventano simbolo di ciò che per Pavese è il nucleo più segreto, ma più vero della vita, cioè la morte. Continue sono per il poeta, tormentato, allucinato e troppo sensibile, le manifestazioni dello scendere “nel gorgo muti”, a volte sospese sul nulla, come “una vana parola”.

tristan51
A quando un ritorno convinto e condiviso a Pavese, a Pavese narratore e poeta?

Pietro Paolo Tarasco
La poetica di Cesare Pavese mi ha sempre emozionato ed ispirato per la realizzazione delle mie opere d’arte. Oggi, dopo la lettura della sublime poesia proposta dal Prof. Marchi, vorrei ricordarlo con questi straordinari e indimenticabili versi della poesia “Notturno” che tanto mi hanno illuminato. “…Tu non sei che una nube dolcissima, bianca / impigliata una notte fra i rami antichi”.

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