Stanza dei poeti. Alessandro Parronchi
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Firenze, 5 gennaio 2018 – A farmi ricordare Alessandro Parronchi e l'anniversario della sua scomparsa (Firenze, 5 gennaio 2007) è un volume di lettere inviate dal poeta ad un altro poeta, Vittorio Sereni. Si intitola Un tacito mistero, fu edito a suo tempo da Feltrinelli, ed è una vasta e straordinaria corrispondenza mediante la quale due poeti pressoché coetanei del nostro Novecento dialogano, per quarant’anni si confrontano, fungono da testimoni dentro e oltre il tempo che hanno attraversato.
Sta di fatto che Parronchi, grazie alla scrittura, è ancora qui: a farsi ascoltare, a dialogare con noi, a interpellarci su temi e problemi. Le epoche certificate dal libro sono molte, ma spiccano in Un tacito mistero gli anni della giovinezza e della formazione ermetica e quelli storicamente implicanti della guerra e del dopoguerra. Anzi, è proprio allora che gli scambi epistolari tra il fiorentino Parronchi e il nordico Sereni si fanno più fitti, e l’epistolario davvero trabocca – oltre gli episodi della cronaca – di elementi generali da tenere all’attenzione, di indicazioni e piste di ricerca, di «strumenti umani».
Parronchi e Sereni grazie alla scrittura – precisiamo: anche grazie alla scrittura a margine della loro scrittura maggiore, la poesia – sono qui. E di che cosa parlano tra loro e a noi tutti due poeti scomparsi, documentando con testimonianze cartacee i loro provvisori e slittanti presenti, auspicando futuri, richiamando, anche per via di affondi nel passato, momenti di valore individuale e collettivo? Parlano soprattutto di poesia, dell’evolversi di un proprio esercizio, della ricerca di «padri» e «fratelli» in arte, del costituirsi di testi.
Sereni fa di Sandro il suo «consigliere», Parronchi accetta con convinzione l’incarico, attestando una continuità di sguardi sul reale saldamente basata su comuni ragioni di vita, su un tutt’uno esistenziale che con la vita coincide: «Non mi stancherò tanto presto di guardare – scrive Parronchi –, almeno fino a quando le “questioni di lavoro” mi parranno, come lo sono ormai da tempo per me, l’unica ragione per vivere». Un impegno esclusivo, inclusivo e fagocitante, cui si accompagna, nel suo spessore esistenziale dichiarato, un quadro solidale di amicizie e concomitanze che allarga il panorama della contemporaneità, che alimenta un desiderio forte, un atto, insieme, di umanità e di civiltà delegato e rappresentativo.
Strane creature, i poeti, quelli veri come Parronchi e Sereni, assenti e invece vivi ed operanti in una stanza: una «stanza» poeticamente ambigua anche attraverso suggestioni formali, da cancelleria lirica, o tramite memorie, mettiamo la celeberrima, leopardiana A Silvia, «Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno». Una stanza in cui il dialogo, però, dura e si allarga, visibilizzando le resultanze di quel mobile intrattenersi, di quell’intrecciato e confidente colloquiare a distanza, di quell’essere insieme oltre le apparenze ed i fisici incontri.
L’idea di una stanza-specola del mondo è autorizzata del resto da Parronchi stesso, in una poesia nella quale quel luogo è, biograficamente, il domestico studio milanese di Sereni visitato un giorno d’ottobre del 1948. Ma potrebbe benissimo essere anche la sua stanza fiorentina in cui per una vita ha lavorato, affidando a parole l’esistere in tutte le sue gamme: dal «coraggio» alla «paura», dalla «tristezza» alla «gioia».
Ed è quasi d’obbligo citare adesso da Occhi sul presente, prima di leggere la prescelta poesia del giorno, questi versi di Parronchi, tra i più belli che un poeta abbia mai dedicato ad un poeta: «Ho rispettato la quiete / del tuo studio. Erano là / a fissarmi i tuoi occhi. / Li vedevo assorti nel lavoro / ardere dietro un apparente / velo di tristezza… Dietro, era la gioia. / E i miei si chiusero. Non una / di queste cose mi seguì, nel breve / viaggio che feci verso le ombre, / non una, ma, ricordo, strane immagini / d’abbandono, e pensieri / importuni che venivano a riprendermi. / Dopo filtrò più luce, ed era ancora Milano, la tua stanza, / l’Italia che mai più grande e leggera / è di quando risale / a Lecco per le valli, e io mi dicevo: / si slargherà il suo cielo / su noi e sempre più lievi ombre saremo / al suo perpetuo schiarire» (A Vittorio).
Marco Marchi
Un anno
Mi vellica il vento dell’estate
scorsa con un motivo di canzone
e mi avvicino al davanzale il volto
di te che te ne vai, sicuro
di veder riapparire.
Per quante estati ancora? Forse l’ultima
è questa. O forse qualche altro anno il fato
di vita ci serba…
Ma allora non decada
questa già tanto, per stanchezza o ignavia,
debole umanità.
Quello che abbiamo in noi
tutto e presto s’esprima.
Dopo vivremo giorno giorno
non più per noi, per gli altri.
Ma anche l’arte non è inutile, quando
non è chiudere gli occhi. Poesia
non è voltarsi indietro ma discernere
tra quel che all’uomo è di necessità
primaria, imprescindibile,
tra la fame la sete il sesso il sangue
e le cose di cui non può far senza,
la nostra cecità mascherata di scienza,
un rimpianto, un ricordo,
un sospetto di sopravvivenza,
un futuro già presente…
Alessandro Parronchi
(da Replay, ora in Le poesie, prefazione di Enrico Ghidetti, Edizioni Polistampa)
e sulla pagina personale https://www.facebook.com/profile.php?id=100012327221127
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