Il mare al mattino, nella purezza limpida di un cielo e di un mare vergini così come la natura che circonda il poeta: puri, incontaminati nella luce da poco sorta, non ancora offuscati daila realtà della vita. Ma neanche la pura bellezza del paesaggio marino della sua Alessandria può dare sollievo, se non effimero, al poeta e il ricordo degli amori e dei piaceri trascorsi e perduti per sempre riaffiora incessante. Tra nostalgia, irrealizzabili desideri senili e aspirazione tormentata verso una purezza impossibile, Kavafis, con l'eleganza e la sobrietà che la classicità profondamente introiettata gli ispirano canta il dissidio tra anima e sensi. Aggiungerei che é straordinario come la limpida classicità di Kavafis riesca a coniugarsi con l'inquietudine dell'uomo di oggi: due brevi strofe scandite dall'anafora iniziale, legate da richiami fonici interni, ci spalancano l'ossimoro struggente dell'esistenza, tra luci e ombre, desiderio di catarsi e richiamo dei sensi, percezione d'infinito e finitezza tormentata dell'individuo.

Arianna Capirossi

Nelle poesie e nelle prose qui presentati predomina la nostalgia. La penna sensibilissima di Dina Ferri delinea, con tratti pascoliani e grande partecipazione emotiva, un mondo agreste che non c'è più, l'inesorabile trasformazione delle campagne. Particolarmente suggestivo è il testo sul villaggio di Ciciano: la prima parte, tutta al passato, è volta a ricostruire con le parole "le case rustiche, le viuzze" del villaggio, e a ridare vita ai personaggi anonimi che lo popolavano - i "ragazzi sporchi", le madri, ma soprattutto l'anziana filatrice con il suo geranio senza fiori. L'impiego dell'imperfetto dà al lettore l'idea di un'atmosfera passata e immobile, sospesa, come quella delle fiabe: la vecchina "filava", "vestiva un abito nero", "amava", "innaffiava", "narrava". Eppure, un giorno tutto finisce: la filatrice viene a mancare; l'intero villaggio muta d'aspetto agli occhi dell'autrice. Nella parte finale, concentrata sull'oggi, predominano le negazioni: "non riconosco", "Questo non è più Ciciano", "una donna che non conobbi", "non sorrise". Il villaggio che era ora non è più, anche se conserva il suo nome. La prosa si conclude con una malinconica metafora: il pianto delle campane, unico elemento del luogo ancora familiare all'autrice.

La durezza degli avvenimenti si riverbera nelle aspre sonorità di "Contro le altere torri" di Mario Luzi: la poesia dipinge davanti agli occhi del lettore la scena d'orrore dell'11 settembre 2001 e invita alla riflessione sul futuro che ci aspetta, concludendo con l'interrogativa diretta "Come?", colma di angoscia. L'allitterazione della liquida "r", che caratterizza i soggetti del nefasto evento, gli "aerei" e le "altere torri", riecheggia lungo l'intero componimento in parole quali "contro", "rancore", "sorta di ebbrezza", "morte", "creature / sacrificali", "tenebra", "soverchiato, oppresso" (attributi dell'animo). Tale allitterazione, associata al significato delle parole in cui ricorre, contribuisce a rievocare il carattere sinistro e lugubre del referente. La medesima figura sonora è presente in "11 settembre": anche qui parole quali "alterigia", "torreggiare", "crollo" e "voragine" risaltano nei versi, caratterizzandoli con i loro suoni ruvidi. La durezza si stempera nei versi finali, in particolare grazie alla rima "preghiera" - "vera", che impiega il suono della liquida per veicolare, in questo caso, un afflato di speranza. È così che dopo la cupezza di "frenesia di morte" ed "estremo affronto", il tono della poesia si risolleva, e il suono "r" da ferale si muta in mite vibrazione di un'orazione di pace.

Paolo Parrini
Cosa colpisce in modo così inevitabile della poesia di Rocco Scotellaro, che la fa apparire unica rara e preziosa.Il suo senso sociale, certo, l'impegno civile e umano per il suo Sud.Ma insieme la sua solitudine, la sua disperata distanza dalle sue stesse genti, quel suo quid di sensibilità e di profondo senso poetico che lo allontana mentre lo lega, dagli altri uomini.In questo il suo afflato giunge all'acme, essere vicino , amare e allo stesso tempo essere anche altro.Si dice che il Poeta abbia bisogno degli altri come nessuno, e insieme dagli altri viva una certa distanza.Un senso della morte incombente, l'amore per la sua terra, il rapporto intenso con una madre tanto amata e contemporaneamente così lontana dalla sua psiche troppo bisognosa d'amore.Viene da pensare a quanto Scotellaro avrebbe potuto dare ancora alla Poesia, con doloroso amore come era in lui innato.Restano le sue opere, e il senso di una morte troppo vorace, che ce lo strappò quasi ragazzo, lasciandoci l'amaro sapore della nostra finitezza.

Celan muore suicida, ed era inevitabile forse, che accadesse. perché la sua furiosa frenesia, il suo scrivere del suo dolore e del dolore del mondo aveva dentro il presagio della fine. Quale mente umana può sopportare una simile prova, tutti gli orrori visti e subiti senza perdere la ragione, senza decidere di obliare per sempre ogni bruttura. Forse solo la consolazione di un Dio poteva salvarlo, ma la fede salvifica non è per tutti e non è per tutti i Poeti. Penso a Pavese e alla sua morte, penso a quella di molti altri immensi Poeti e Poetesse come la Plath, la Pozzi, la Rosselli.In questo morire inevitabile di sensibilità accentuate, germogliano perle poetiche inestimabili. Celan lascia meraviglie, dolorose e uniche."Dice il vero chi parla di ombre"...scrive Celan, le ombre dei morti nei campi di sterminio, il genocidio senza rimedio che non può essere accettato. Oltre questa terra imperfetta e crudele, lo attendeva , forse, la quiete della morte, laddove la sua Poesia potesse correre e librarsi al di là di tutto il dolore, attraversandolo e vincendolo.

Maria Antonietta Rauti
Gozzano come Palazzeschi diventa "un saltimbanco" tra i suoi pensieri, riuscendo ad accostare, tra la musicalità dei versi delle sue quartine, immagini poetiche, sicuro di varcare gli ostacoli della vita. È la parola diventa magia capace di accostare " i carnevali""ai lutti". Stupenda e ricca di significato la rima Sapiente con il Niente personificato. Gozzano riesce a "fotografare" il Tempo con una disinvoltura straordinaria che lo immortala tra i grandi Poeti.

Cesare Blanc
Un componimento, questo di Vincenzo Cardarelli, all'insegna del "Lentamente muore". Quante volte preferiamo assopirci nel sonno della quotidianità e decidiamo invece di accantonare ogni riverbero di vita. O quante volte ci facciamo da parte per gli altri, reprimiamo il nostro volere per accontentare una persona a noi vicina. Ma quando si ha dentro il desiderio della vita, come vedo espresso in questa preziosa poesia, prima o poi, per quanto si possa far finta di non vederlo, egli verrà a cercarci e finirà col sovrastarci. Anche se il senso non sposa propriamente il motivo cromatico originale palazzeschiano, tale come lo concepiva il buon Aldo si intende, direi che si tratta di un inno al rosso, colore della vita. Non pare un'ipotesi del tutto azzardata, dopo tutto. Infatti, la quotidianità viene qui cromaticamente descritta come il "nero cerchio". A mio modesto avviso, ritengo che questo periodo di pandemia e conseguente quarantena ci abbia probabilmente messo davanti un'immagine molto similare a quella descritta nella poesia. Avremo provato in tanti e più volte "una smania di non dormire", ad esempio. Si potrebbe, inoltre, riflettere sul finale "io annego nel tempo", tema molto caro e che sovente associo a Marcel Proust. Rimandiamo spesso al domani le nostre piccole passioni, desideri, sogni, fino a che il tempo non ci costringe a mettere tutto da parte in maniera definitiva, e il tutto ci urla dentro. A partire da questo componimento di Cardarelli, e l'associazione indiretta con il mare (noto "mi travolgono rumorosi" e "annego", registro di lingua che mi suggerisce il mare, l'acqua), in un vecchio componimento ho provato a parlare anche io di tempo e di memoria che svanisce e si smeriglia con esso, nei seguenti termini, eccone un piccolo estratto "Un bimbo con le mani sporche / che riempie di acqua il secchiello, / e si intorbidisce di arena. / Ridurre il mare a dimensione umana, / per contemplarlo e far suggello / di quelle onde che si fan tòrte".

Marco Capecchi
Chi è l'uomo nero di Esenin? La fine di ogni illusione, di ogni speranza di riscatto. La consapevolezza di una vita spesa per una Rivoluzione che rinnega se stessa.L'intuizione della tragedia che ormai incombe sul Poeta che come ogni Poeta paga per la propria generosità,ingenuità, ma pure grandezza e profondità. L'uomo nero è lo stalinismo che come ogni totalitarismo non sopporta la Poesia riducendola a propaganda menzognera. Una guerra impari in cui il vincitore,paradossalmente, è la vittima momentanea ovvero il Poeta che ancora possiamo leggere con commozione, partecipazione e gratitudine.

Tozzi non rabdomante, ma scrittore consapevole della propria arte. Il suo misurarsi con la cultura europea ne è, assieme alle letture fatte e testimoniate, una prova incontrovertibile. Dispiace che questo centenario della morte passi senza un approfondimento e uno scavo su uno acrittore che ad ogni reiterata lettura offre spunti di riflessione e appare sempre moderno e contemporaneo. Quasi scrittore asintotico nel senso che illumina e non si fa raggiungere.

Roberta MestrelliBerti
Ognuna di queste poesie di Sibilla Aleramo sembra un inno alla solitudine: è l'amore che manca, manca il suo calore...! E tutto sembra fare eco al quel senso di freddo e di malinconia: la rosa bella e bianca fiorita nel gelo, il lamento del mare, la città che grida ma la esclude, la luna nel cielo d'inverno...

Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso il quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di "oggettività d'ammirazione", in quanto personificatore di un'arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta e scrittore della semplicità stilistica, riecheggiante una cadenza pascoliana. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.

Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare - dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra - al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al maturo “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia - come ricorda lo squisito Paolo Poli – che solo nella vita ma amato dai colleghi ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Lorenzo Dini
È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.

Nella “Chimera” di Dino Campana il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Tirreno
A mio avviso uno dei grandi della poesia italiana del Novecento, Caproni. Sincero e struggente nella prima parte del suo scrivere, direi fino al "Seme del piangere del 1959". Più criptico dopo, ma non mai meno ispirato. Interessante anche l'impegno ecologico, che enunciato in un periodo assai precedente dalla odierna sensibilizzazione assume quasi toni profetici. Eppure parlò sempre a voce sommessa

Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l'unica vera compagna di Pavese. Quel "vizio assurdo" che suscita in lui un'irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine, che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all'assenza, all'incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell'oblio.

Greta Fantechi
Sotto la descrizione poetica di un paesaggio che muta, preannunciando l’arrivo della primavera, si cela una “terra embrionale dell’anima”, popolata da immagini lontane, che si materializzano davanti agli occhi del Poeta: è il tema dello scorrere del tempo, che spazza via, inesorabile, “mozziconi di vita”, l’elemento cardine della poesia: una Primavera personificata – una Natura che si fa allegoria della Giovinezza – è, infatti, la stagione del cuore in cui Machado si trova a correre in soccorso di anni ormai perduti, con l’eco di un carpe diem finale (pervaso forse di speranza) che implora un ultimo invito a strappare l’attimo dal tempo (¡Juventud nunca vivida, / quién te volviera a soñar!). “La Primavera besaba” rappresenta per me – seppur attraverso uno sguardo nostalgico rivolto al passato – anche una potente celebrazione della forza della vita, che si rinnova ciclicamente, così come si rinnovano le stagioni.

L'“Orfeo nero cantore della Negritudine” Senghor ci ha offerto una poesia rivoluzionaria, seppur, in apparenza, sovranamente digiuna di politica. Attraverso questo viaggio poetico Senghor celebra, con una limpidezza senza pari, il sentimento d'amore verso il proprio continente, ed abbraccia, con il suo “corpo-nazione”, l'intero popolo femminile africano. Il contenuto scandalistico di "Femme noire" non scaturisce, a mio parere, dall'audace, squisito ritratto di un'anonima Venere nera naturalizzata francese, né tanto meno, dalle intorte spirali d'erotismo che sembrano avvilupparsi sui versi del componimento, ma dall'atto di “carità poetica” di Senghor, volto a spezzare quelle catene mentali del pensiero filo-occidentale che costringono la Donna africana alla funzione stereotipata di marionetta dal linguaggio inarticolato, cui rivolgersi con un altrettanto storpiato francese, assoggettata a dinamiche e compromessi da salone parigino degli anni '30. La “ribellione poetica” di Senghor consiste, infatti, nel “decolonizzare le coscienze”, nell'affermare e nobilitare l'umanità della Donna di colore, elevandola al grado di essere umano e provocando nel lettore bianco quasi una sconcertante sensazione di spaesamento. Come già osservava Sartre: “Noi ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all'improvviso ci appare come una maglia logora, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor”.

tristan51
Che bel poeta Heaney! Un’amica molto sensibile e intelligente mi ha fatto una volta notare l’irresistibile comunanza, o per meglio dire la stretta fratellanza delle menti umane che vige al di là dei confini spazio-temporali. Così, nel rievocare al presente gli avi amati che dissodano la terra, rivivendone i gesti con la penna fra le dita, ecco che il poeta Seamus Heaney rimanda in una sua celebre compoizione, “Digging”, forse senza volerlo, a un'immagine ancor più antica e genuinamente italiana: "Se pareba boves/ alba pratalia araba/ et albo versorio teneba/ et negro semen seminaba" (Indovinello Veronese).

Identificato lo "sconosciuto" di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di ": riflessi" conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l'opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di "Sorelle Materassi") quando sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili». La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell'io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell'esistente e rivincite dell'arte.

Ferruccio Palmucci
Chi, come me, conserva da decenni nel cuore la musica di “Musa, quell’uom di multiforme ingegno/Dimmi, …” ha dovuto fare un certo sforzo per adeguarsi alle moderne traduzioni delle opere di Omero. Ma, una volta “passato il guado”, il piacere della nuova lettura non è stato inferiore a quello procuratomi dalla versione di Pindemonte, a parte l’emozione vissuta, nel lontano tempo della giovinezza, nel comune stupore di un’aula scolastica. Ho letto la versione di Rosa Calzecchi Onesti e l’ho trovata eccellente, ricca di immagini che gli conferiscono leggerezza, colore e ritmo nella misura giusta per non diventare una traduzione meramente letterale, solamente fedele al testo. Qui il brano, tra i più struggenti dell’intero poema, si avvale della sensibilità di una poetessa innamorata dell’Odissea fin dall’adolescenza, arricchita dalla cultura e dalla buona conoscenza del greco. L’intero libro XI possiede una straordinaria intensità umana e, in particolare, per la loro pietà e la drammaticità, i versi riguardanti l’incontro di Odisseo con la madre, di cui la Bemporad ci offre una parte della sua versione poetica. Odisseo consente alla madre, che beve il sangue nero, di riconoscerlo e subito inizia un dialogo straziante fra figlio e genitrice fatto di richieste di notizie, di risposte riguardanti il destino della famiglia, tutto descritto con accenti altamente tragici e dolorosi, segnati dalla stupenda immagine di Odisseo che per tre volte tenta di abbracciare la madre e per tre volte lei gli vola via dalle braccia come un’ombra. La traduzione della Calzecchi Onesti è molto efficace, ma nella versione della Bemporad il dolore e la pietà diventano poesia. E qui bisogna accennare al fatto che, essendo la poesia “intraducibile”, non c’è nessuno che, meglio di un poeta, ne possa fare una traduzione. Infatti qualunque parola di un linguaggio può essere tradotta in un altro linguaggio adeguandone il senso logico, ma le parole poetiche contengono immagini che andrebbero tradotte in parole contenenti le medesime immagini. Voglio dire che, più che il mero significato della parola, è il suo “quid” indicibile, irrazionale, che deve essere tradotto. Alla creatività poetica originale dovrebbe corrispondere un’altra creatività poetica espressa in un linguaggio diverso. Insomma il solo traduttore di un poeta non potrebbe essere che un altro poeta. Mi rendo conto che sto facendo un discorso accademico. Dove troveremmo un altro poeta per tradurre l’Odissea che sia all’altezza di Omero? Poeta come Omero? Eppure, in questo brano la Bemporad ci offre un bell’esempio di traduzione da poeta a poeta.

Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l' "Anima Mundi" di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un "miracolo", accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente "sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole" e vuole "rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell'anima." Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando "fugge nella notte nera/ ...per ascoltare il vento e la bufera"; quando ammira "le stelle nella notte scura" e "trema di freddo e di paura"; quando vorrebbe passare per "l'incognito sentiero ...fuggir per valli" e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre "piange la bufera." Immagini che rimandano al cuore dell'arcano universo che batte all'unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell' "Anima mundi" che così bene ha trovato in lei l'espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, "a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero" l'ignota ragione del proprio destino, "il ritorno alla luce che fu." Ma la risposta sarà: "Mai più!" Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all'età di 22 anni con un'insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell'infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell'indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo

Giulia Bagnoli
La quartina è il simbolo di questo duo erotico dove la donna tiene le fila del discorso poetico. Abbiamo nel testo di Patrizia Valduga una coppia doppia che giustifica la quartina: un uomo e una donna; il linguaggio e il corpo. Prima dei corpi abbiamo il linguaggio, qui sempre provocatorio, tanto da far apparire l’incontro amoroso come una grottesca farsa. Ricordiamo l'incipit di "Medicamenta": "Sa sedurre la carne la parola, / prepara il gesto, produce destini...".

Ecco, in Cristina Campo, il paradosso della poesia che mentre sfugge all’azione corrosiva del tempo, facendosi dunque eterna, muore. Similmente, come teorizzato da Barthes, avviene con la fotografia, che, se da un lato rende eterno, dall’altro uccide proprio con la sua forma fissa. La parola poetica, tuttavia, è eterna nel suo morire e rinascere; nel suo tornare sempre ad essere una pagina bianca e il pugno chiuso prenatale. Soltanto così può farsi davvero speranza e alleviare il dolore.

Antonella Bottari
Tutti i fanciulli del mondo. Anna Frank, condannata all 'esilio in una soffitta, per anni di silenziosa vita, privata della gioia di vivere, dei sentimenti e delle azioni che pomuovono la vita dell'adolescente, la quale è costretta a crearsi un mondo fatto di vibrazioni di angoscia, di risate soffocate, di difficoltà ambientale, di crescita. I rapporti conflittuali tra sé e gli altri, l'amore per la vita. Lo stesso amore che a Pompei, all 'inizio del primo secolo, spinge una fanciulla ad avvinghiarsi al corpo materno in cerca di una possibilità di rinascita, mentre le ceneri acri del vulcano le mozzano il fiato e la privavano del soffio vitale. E tutti i bambini di Horoshima, smaterializzati in un angolo di cenere. Quanto orrore nel mondo in nome di un ideale contorto ed aberrante!
Fatta salva l'eruzione del Vesuvio, tutto naturale e pertanto imprescindibile, tutto il resto è opera dell'uomo. Un uomo, che perdendo il segno etico e la misura causa - effetto, si macchia di colpe efferate in nome dell'odio. Tutto questo scrive Primo Levi con ritmo incalzante e rammemora di se stesso e della vita nei campi di sterminio. Sei milioni di Ebrei lo hanno sperimentato sulla loro pelle, sulla loro dignità calpestata, sulla loro vita annientata. E chi non morì nei campi della barbarie, dell'infame crudeltà, non resse, come il Nostro, che per esser vivo dovette scegliere di porre fine ai suoi giorni. Ma prima di andarsene lasciò in noi vibrante testimonianza, monito intransigente della coscienza; nessuno mai dimentichi.

Una realtà enigmatica e perciò stesso ostile, una realtà mossa da un’irridente energia, che mimetizza le disarmonie e le sofferenze della vita. Questo è il mondo di Sylvia Plath, Lady Lazarus, che si rivolge a questo coagulo d’esperienza con l’aria e il piglio di una donna pronta alla sfida finale: in cuor suo sa d’essere diventata invincibile, la sua profetica parola ha sconfessato ogni finzione e ciò la rende eterna. Eternamente viva, ancora e sempre si libererà dal peso delle esperienze negative vissute con la percettibilità dei sensi: i nauseanti odori, gli occhi stanchi per aver visto la mostruosità di una vita che abbrutisce l’anima, il dolersi e mordere la propria coda per quel senso di sospensione e di non appagamento, l’inutilità del linguaggio che non porta comunicazione e partecipazione, ma solo fraintendimento, saranno finalmente solo un ricordo. Il “sepolcro”, la fine di una vita, così tremendamente snaturata e squallida, sarà smascherata da una donna che ogni volta tornerà a sorridere, fiera, libera, simbolo della verità conquistata nel sacrificio. E ancor più può sorridere, perché le son bastati appena tre decenni, per svelare e rappresentare l’orrido vero. Sul palcoscenico della vita si sviluppa un doppio dramma, quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, e quello degli uomini sciocchi e curiosi, una folla impersonale che non muta in alcun modo l' inferno morale nel quale lei si trova. E agli astanti si rivolge, ribadendo d’essere sempre la donna animata dal desiderio di cogliere la verità: e a nulla varrebbe risorgere in altro corpo, perché nessuno la individuerebbe. Così che un gesto eccezionale e anormale che verrebbe catalogato come insano atto derivante da una follia circoscritta, diventa espediente per ricordare e risvegliare l’attenzione; quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, è un sacrificarsi, un far discutere sul perché delle sue scelte, che diventano simbolo di una genialità eccezionale, che sorge e si manifesta in differenti modi, anche quelli più strani. Su queste basi la ripetitività ossessiva, quasi maniacale, che appare come una condanna, resta l’unico mezzo logico-razionale per lanciare un messaggio di fede e di speranza. Sylvia Plath, Lady Lazarus, non recita una parte, si fa ed è personaggio tragico, è la creatura che deve consumare necessariamente il suo gesto, come se il suo fosse un atto cerimoniale che sorge da manifestazioni miracolistiche. E lei attende il suo pubblico, aspetta che la platea si riempia, che tutti osservino il momento del suo morire e risorgere dal fondo del teatro, con lo stesso corpo, solo con qualche cicatrice in più. È nel suo morire e risorgere che Sylvia Plath, prende coscienza d’essere fatta della stessa sostanza divina, e come il Cristo si ripropone, affronta un’ennesima prova, quella più impegnativa, per la quale il suo io si scontra con il silenzio e l’assenza d’ogni risposta. E, dalle polveri incenerite di un sentimento e di una fede, Sylvia Plath, declama il suo avvertimento, la sua promessa di un ciclico ritorno, un ritorno d’amore, lo stesso amore divino che alita sul mondo, perché il respiro s’accenda.

Giancarlo Giancarli
Nei versi raffinati di Cristina Campo il dolore trapela dall'antitesi, dall'accostamento ossimorico dei termini, e, seppure compostamente e misuratamente espresso non per questo ci appare meno desolato e intenso, meno profondo. Non è poesia facile, quella della Campo, ma una più attenta lettura ci permette di intuire il senso delle immagini, di quel roseo ulivo, di quell'orcio pieno d'acqua; il senso di quella luna del lungo inverno, di quello sdoppiarsi dell'autrice nei due versi finali. E il gelo che prova nella sua lieve tunica è il gelo che avvolge la sua anima appassionata nella solitudine della fine dell'amore.

Pietro Paolo Tarasco
L'esser nato in una città di sconvolgente bellezza come Praga, penso che per un grande poeta come Seifert, sia stato una fortunata e straordinaria coincidenza. L'ha decantata come meglio ha potuto; quel grande amore per la città natia, metaforicamente, l’ha commisurata all'amore che si dona alla donna più amata. Solo chi ha avuto la "fortuna" di percorrere le buie e deserte stradine nella magica Praga di alcuni decenni fa, potrà veramente immergersi nella poetica così intima di Seifert. La sua unicità poetica mi ha portato immediatamente alla memoria un suo caro amico, anch'egli praghese, chiamato "Il poeta di Praga". E’ il fotografo realista e romantico Joseph Sudek. L'hanno amata e decantata con la stessa incommensurabile bellezza, l'uno con sublimi versi e l'altro con straordinarie immagini. Ringrazio il Prof. Marchi per aver pubblicato questi bellissimi versi che mi hanno riportato immediatamente nei ricordi di una città di inebriante e indimenticabile bellezza.

Rosalba de Filippis
"Scolpire " "Lignificare" "Fissarne" ancora "Scolpire" , infine:"dire" il mare. Il materiale forse per eccellenza per Caproni in quanto di una maestosita' e di una vitalita'sfuggenti. Dire e scolpire il mare : una grande sfida. La'dove la parola per Caproni tende a fissare, a "dissolvere l'oggetto" , la stessa consistenza materica delle cose. La scrittura aforistica di "Res amissa", sara' infatti 'il punto di approdo di una riflessione sul potere erosivo della parola; riflessione che fa di Caproni uno dei piu'importanti poeti del Novecento.

Aretusa Obliviosa
Qualche tempo fa l’amico e poeta Giacomo Trinci notava acutamente, durante la presentazione di un libro nella mia piccola Pistoia, come la narrativa toscana sia in genere percorsa a livello tematico e stilistico da una vena di cattiveria tale da costituirne una sorta di file rouge, un’impronta genetica facilmente riscontrabile. È certo a pieno titolo che Federigo Tozzi si inserisce in questa tradizione, e la succitata prosa di “Bestie”, splendida e terribile ne è la prova: la si potrebbe rileggere dieci, venti volte e alla ventunesima avvertiremmo ancora quello strano effetto allo stomaco, quella sensazione difficile da sopportare che ci fa penare per un rospo alla stessa stregua che per una persona. “Uomini e rospi”, come ci fa notare nelle sue belle e memorabili pagine Nicoletta Mainardi parlando appunto dei due amici - ma guarda un po’! - toscani entrambi Viani e Tozzi; proprio così: uomini e rospi, che si scambiano i ruoli fra umanità e crudeltà, fra pittura e scrittura, fra la cifra della dura realtà e l’implacabile tratto espressionistico, fra Viareggio e Siena. Potremmo anche non muoverci di un solo passo, rimanere nel medesimo confondersi di mare, colline e viottoli, limitarci ad alzare lo sguardo verso la lucchesia e il manicomio di Magliano, e ritroveremmo, con uno scarto di solo qualche decennio, una prosa, epica e contemporanea al tempo stesso, non meno scarnificata e crudele, la stessa pennellata espressionistica (che ci sia la complice mediazione delle conterranee “Chiavi nel pozzo”?) negli icastici e indelebili ritratti delle “Libere donne” di Tobino. Una delle poche scritture del novecento, a mio modesto parere, capaci di reggere il confronto della crudeltà col nostro Federigo.

La poesia di Campana è molto culturalizzata. È un magnifico ponte, una sintesi eccellente tra antico e modernità. Penso al ritmo cantilenante reso dalla continua iterazione e ripetizione anaforica che fa del linguaggio poetico quasi un rito iniziatico, misterico, premonitore... E ben si adatta a questo stile un tema senza tempo come la morte, nel caso specifico dolce fanciulla che al tempo stesso culla il poeta e si fa compagna delle tenebre e dell’oscurità. E come D’Annunzio invita Ermione ad “ascoltare” la magia della pioggia, qui Campana estende il medesimo invito all’ascolto di una dimensione spirituale e primigenia, che diviene una cosa sola col sopraggiungere della notte. La sua voce non si fa attendere: l’onomatopeico “più” del poeta notturno non può non evocare il pascoliano “chiù”, o il “nevermore”di Poe. Eppure, nonostante gli evidenti rimandi letterari, il lettore resta meravigliato dinanzi al canto ispirato di un poeta la cui importanza ancora oggi non mi risulta riconosciuta.

Yumiko Nakajima
Mi sembra che nelle "Bestie" Tozzi fa affidarsi al flusso della coscienza, inserendo il paesaggio senese, racconta memoria con l'umore inerte, e racconta le sue memorie incise nel profondo. All'improvviso appare l'animale e gli insetti, e ci spaventa dal suo modo della descrizione con la crudelta', sopratutto quello di rospo.

Artur Spanjolli
Se ci sono due storie che meritano che l'umanità ricordi per sempre quelle sono: Iliade e Odissea. La mente che ha concepito , specialmente la seconda storia, è stata la mente più brillante del narrare umano. Ogni elemento è nel posto che deve essere. Ulisse in via di ritorno. Proci che meritano il castigo. Penelope, eroica e fiduciosa, che non perde mai la speranza, contraria a Elena, ignobile e dissacrale, Ulisse che tutto narra con flashback, Telemaco , cresciuto che cerca il padre. Questa attesa mitica, questo prolungamento sapiente dei fatti, vicino alla finale, sono gli ingredienti grandiosi , per scrivere un ritorno epico, una vendetta sacrosanta, un finale migliore che ogni ingegno umano, ogni vivida e geniale immaginazione può inventare. Nobel per ogni elemento ivi legato gli darei. Questa attesa mitica di Penelope, nel nome del amore, il flusso d' energia negativa dei proci che premono con la persistente richiesta di comodo: scegli uno di noi. Il re non torna più! Il figlio Telenaco che cerca il suo padre. Il re. Perfino il cane Argo ha una valenza mitologica nella sua attesa di 20 anni, nel riconoscere il padrone e crollare alla fine morto. Quanto può vivere un cane? 17 anni? Omero portando l'età del cane a 21, forse 22, fino al inverosimile insomma, da all'animale più vicino e fedele al uomo una valenza veramente mitica. C'è allora la bestia che non solo non abbandona mai, ma che anche serba l'odore del corpo del padrone, (Ulisse) per più di vent anni nella sua memoria canina. Geniale. Sublime. Omero è senza ombra di dubbio il più grande dei narratori!

Chiara Scidone
Ancora ricordo quando i programmi televisivi si interruppero, l'11 settembre del 2001, per annunciare l'attacco delle torri gemelle a New York. Io stessa ho visitato il ground Zero, quella piazza, un vuoto enorme, un cimitero a cielo aperto. La tristezza e il dolore anche a distanza di anni sono sempre nell'aria. Questa poesia di Luzi ci aiuta a ricordare l'avvenuto invitandoci ad accantonare l'alterigia e a conseguire la pace, tutti insieme. Una poesia che ci porta ad avere speranza che disgrazie come questa non succedano più.

Una descrizione degli inferi, quella di Rilke, molto dettagliata, un Orfeo che cammina muto e impaziente di riavere la sua amata, sapendo di averla a pochi passi. Ma ormai lei è diventata parte integrante degli inferi, così tanto che quando lui si gira, non lo riconosce. La morte ha vinto di nuovo, purtroppo per l'ennesima volta ha avuto la meglio sulla vita.

Sabina Candela
Vigore, forza, verità, vita, sensualità... sacro e profano, in Patrizia Valduga, indissolubilmente coniugati, incarnati da una parola che si staglia vivida e ci cattura, poiché da' il senso del tutto, lo manifesta senza inutili orpelli, riuscendo a rendere straordinariamente ciò che... è!

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