Premi. ‘Castelfiorentino’ con Luzi e Magrelli
VEDI I VIDEO Valerio Magrelli legge poesie da "Il sangue amaro" , Valerio Magrelli parla di "Geologia di un padre" , "In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi". Il trailer
Firenze, 6 giugno 2014 – Articolo pubblicato su "La Nazione" di oggi.
Il premio. Castelfiorentino tra Luzi e Magrelli
Castelfiorentino celebra la XVI edizione del suo premio letterario con due serate di poesia al Teatro del Popolo. La prima, in programma stasera alle ore 21, è un “Omaggio a Mario Luzi” inserito nell’appuntamento di vigilia tradizionalmente riservato al settore giovanile.
L’“Omaggio”, dedicato all’indimenticabile primo premio speciale del “Castelfiorentino”, prevede la proiezione del documentario In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi, registi Silvia Folchi e Antonio Bartoli, realizzato con il contributo della Regione Toscana in occasione del centenario della nascita del Poeta che quest’anno si celebra. Il video, con letture di Francesco Manetti e musiche di Francesco Oliveto, è stato già presentato con successo a Firenze e a Milano.
Domani, stesso luogo e stesso orario, la serata conclusiva della kermesse, con la premiazione per l’inedito in versi e prosa su tema toscano e l’attesissima partecipazione del premio speciale 2014 Valerio Magrelli. Poeta romano di indiscusso rilievo nell’attuale panorama letterario nazionale (di lui è uscita di recente per i tipi di Einaudi la raccolta Il sangue amaro), Magrelli è anche narratore e saggista: basti ricordare il suo intenso romanzo Geologia di un padre, edito anch’esso da Einaudi, già acclamato vincitore del SuperMondello e del Bagutta.
Marco Marchi
L'inizio di Geologia di un padre
1.
Mio padre sta versando caffé nelle tazzine degli ospiti. Sono un bambino e non bevo caffé, ma oggi questa scena mi incuriosisce, perché mio padre è ferito. Sembra averlo scordato, adesso, mentre ride chiacchierando, col carillon dei cucchiaini che girano tintinnanti nel sole pomeridiano. Eppure il suo mignolo è avvolto in una smisurata garza, per proteggere l’unghia rimasta schiacciata nello sportello di un’auto, qualche giorno fa. Io guardo affascinato l’enorme dito bianco che oscilla sulla tavola, finché, d’un tratto, lo vedo immergersi nel liquido fumante, senza che lui, distratto, se ne accorga.
Sto lì, ipnotizzato, in mezzo al tepore postprandiale, tra l’odore di cibo e di tabacco, senza dire nulla, senza avvertirlo del nero che intanto va montando lungo la fasciatura, risalendo verso la sorgente del dolore, lentamente, inesorabilmente. Più su, più su, e lui niente. Adesso, però, l’intera benda è diventata scura, intrisa di un bitume incandescente. Così la mia infanzia si arresta, attraversata da un urlo improvviso, il tonfo del bricco, le schegge di ceramica, gli schizzi sulla tovaglia. Ecco cos’è per me “la voce del sangue”: la fitta di chi chiama dall’interno, e chiama e chiama, finché la gente intorno si decide a ascoltarla, mentre lento si spande l’aroma del caffè.
2.
Gli era sempre piaciuto il caffé, per questo, alla fine, non mi sono sorpreso più di tanto quando ho capito che lo sarebbe diventato. Mi riferisco alla tomba di famiglia. La ricordavo appena, traccia svanita di qualche lontano funerale. Alla sua morte, tuttavia, fui costretto a prendere confidenza con quel luogo e con i suoi protocolli; burocrazia dei cimiteri. Trascurato da oltre un decennio, il sepolcro era caduto in abbandono. Fissai un appuntamento con un addetto, per indagare meglio la situazione. In breve seppi che, tra la colliquazione di alcune salme e l’umidità del posto, il vano risultava mezzo allagato, in uno stato di completo disfacimento. (Tolto il coperchio marmoreo, mi curvo perplesso sul vuoto, e intravedo le casse accatastate in mezzo alla melma, come in un acquitrino, mentre dal basso sale un’aria fredda, da vecchio scantinato).
Ora occorreva fare pulizia. Mi hanno sempre colpito i racconti in cui un gruppo di persone viene esposto alla necessità del sorteggio. La paglia più corta. In un modo o nell’altro l’estrazione del prescelto possiede una irresistibile forza d’attrazione. Ecco: ho sempre avuto la vertigine della conta, e anche quella volta andò proprio così. Nel gorgo della chiamata, finii come al solito io. Fra tanti parenti, toccò a me il compito di ripulire l’avello – non le stalle di Augia, bensì il loculo del Verano. Insomma, come nei giochi di carte da bambino, mi capitò in sorte l’Uomo Nero, anzi, gli Uomini Neri, visto che di cadaveri, lì dentro, ce n’erano diversi. E che dovevo fare, con quel pantano di poveri dormienti?
Le pulizie di Pasqua ebbero inizio allora, con l’aiuto di un esperto, scelto per presiedere ai lavori. Perché si trattò di svuotare, spalare, prosciugare, ricostruire e areare quel mondo sotterraneo popolato di salme. Fu così che affrontai la questione delle “rese”.
La resa è la differenza di quanto, dopo morto, ognuno paga con la propria vita: l’avanzo degli avanzi, l’autoreliquia. Ogni resa equivale a un corpo, o piuttosto a ciò che ne rimane una ventina d’anni più tardi. La tomba, insomma, è una macchinetta distributrice che dà indietro il resto, sia pure dopo un’attesa alquanto prolungata.
Storia curiosa, questa dei residui conservati a oltranza. Conobbi allora il motivo per cui l’Italia dei Sepolcri foscoliani si differenzia da tanti altri paesi. Senza parlare della cremazione, ciò che contraddistingue le nostre usanze funebri è il modo in cui confezioniamo il cadavere. In molte nazioni la spoglia viene affidata alla terra, in una semplice cassa di legno, per poi filtrare via, sciolta nell’humus. Da noi, al contrario, i morti sono accolti in un’architettura che impedisce loro di svanire.
Ospitati dentro caseggiati di pietra, isolati dal suolo, sono riposti, sì, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco. Così facendo, viene impedita loro ogni via di fuga. (E per finire dove, poi? In una specie di residence coi pavimenti in marmo). Diventano perciò mucchi, pozzanghere, ma immobili, bloccati, senza poter evadere da quell’invaso metallico. Siamo una società conservatrice, che non vuole smarrire-smaltire nemmeno i propri cadaveri. Tombe come cibi in lattina, tombe come cassette di sicurezza: e che nulla si perda, strada facendo!
Questo mi disse il tecnico, per spiegarmi in cosa consistessero le rese. La resa era appunto il travaso di quei resti, dopo un certo intervallo, dalla cassa vera e propria a una piccola scatola di latta, numerata. Intanto, fra me e me, vedevo una cantina riempita di barrique. D’altronde, come non pensare all’invecchiamento dei vini, alle botti, alle annate… Legno, tannino, feccia – gli equivalenti della strana pasta che dovevo domare, io, all’oscuro di tutto fino a ieri, io, perfetto incompetente della Morte. Stavo prendendo lezioni di Scuola Guida, per un Aldilà che appariva molto lontano dalle mie aspettative. Mio padre mi obbligava ad esperire il grande regno della Stagnazione e del Parcheggio-corpi. Ma le colonne altissime di fumo, le eroiche ceneri disperse al vento e alle onde, perché no? Perché no. Così, sono alle prese con le rese.
Ce n’erano quattro o cinque, dei miei cari, da sottoporre a trasloco. L’operazione richiedeva la presenza di almeno un parente stretto. Allora, mostrando l’Asso di Bastoni che avevo estratto dal mazzo, mi feci avanti e fissai l’appuntamento.
Valerio Magrelli
(da Geologia di un padre, Einaudi 2013)
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