L’intervista. Jack Kerouac (boom boom boom) intervistato da Fernanda Pivano (boom boom boom)
VEDI I VIDEO Kerouac intervistato da Fernanda Pivano (1966) , La Pivano ricorda , Kerouac legge Kerouac , Johnny Depp legge Kerouac
Firenze, 3 settembre 2012 – Con Jack Kerouac diamo inizio ad una nuova serie delle nostre Notizie: L’intervista.
All’intervista televisiva realizzata a Milano nel 1966 da Fernanda Pivano (intervista ardua quanto interessante e divertente) abbiamo voluto abbinare il ricordo di Kerouac e di quell’incontro da parte della Pivano stessa: rievocazione avvenuta, come si vedrà dal secondo video allegato, in epoche diverse e in due distinte occasioni.
Pubblichiamo inoltre un bell’articolo della studiosa dedicato allo scrittore americano di lì a poco tragicamente scomparso: Kerouac, rappresentante di spicco della Beat Generation, autore del famoso On the Road, ma anche di tanti libri di versi, dalla Scrittura dell’eternità dorata al Libro degli schizzi, al Libro degli haiku. E dove poi, tra la prosa e la poesia, il confine esatto? Dove l’inizio e dove la fine della poesia, oltre i generi e oltre le definizioni, in un artista che si affida, munito della propria ispirazione, alla scrittura, alle parole?
Completano il post una lettura d’autore e una di Johnny Depp.
P.S. Con Kerouac, rispetto ai due post alcyonio-dannunziani cambiamo evidentemente musica, voltiamo pagina. Ma attenzione: un filo rosso c’è, ad assicurare continuità, a garantire un contesto comune non solo a queste Notizie di poesia ma alla poesia stessa. Quando la Pivano chiede allo scrittore delle sue preferenze in fatto di letteratura italiana, dopo avere giudicato ininfluenti sulla sua opera Dante, Leopardi e Petrarca, Kerouc dichiara che tra i nostri poeti più di tutti gli piace D’Annunzio…
Marco Marchi
Jack Kerouac, l’Orfeo emerso
Forse l’errore è stato chiamarla beat generation: ai tempi che Kerouac mise in moto tutta questa baracca era soprattutto una go generation. Dove andassero non lo sapevano di certo, quei dolci insopportabili patetici insolenti hipsters dal volto d’angelo che zigzagavano per gli Stati Uniti come noi più tardi le nostre varie piazze del Duomo, in cerca di altri amici con cui andare, dove, chi lo sa, ma andare.
Per un po’ di tempo un Kerouac asciutto, intenso e disperato cercò di difendersi dicendo che la beat generation non esisteva, era solo un gran chiasso che avevano fatto intorno a una sua frase, che in realtà beat non erano soltanto gli adolescenti del rock and roll ma anche i tossicomani sessantenni, che beat voleva dire essere degli hip del Ventesimo Secolo, vale a dire hip della vita e di visioni mistiche.
Ma già allora, nei primi giorni del 1958, mentre lo stavano leonizzando a New York e cercava di sfuggire allo stereotipo che lo avrebbe ucciso, Kerouac disse in un’intervista di essere enormemente triste, in una grande disperazione, perché vivere era un gran peso, un grande faticosissimo peso, e avrebbe voluto essere al sicuro, già morto: avrebbe voluto avere la certezza che noi in cielo come vuoti fantasmi ci siamo già, davvero.
Fra tanti maestri di vita che gli indicavano strade opposte Kerouac si è ucciso cercando di difendere la strada che si era scelta da sé, quella dell’energia vitale, dell’energia creativa, dell’energia espressiva.
Dal 1957 al 1967, da Sulla Strada a Vanità di Duluoz, sembra impossibile che siano passati soltanto dieci anni: sembra impossibile che in dieci anni sia tanto cambiata la faccia del mondo.
Sembra anche impossibile che sia tanto cambiato Kerouac e impossibile che sia stato tanto consapevole della trasformazione.
Gli anni che passarono in attesa che Sulla strada venisse pubblicato furono senza dubbio i suoi più importanti, dal punto di vista della creatività. Sappiamo tutti che ha scritto Sulla strada in tre settimane e i Sotterranei in due giorni e tre notti (disse poi che alla fine dei Sotterranei era pallido come la carta, era dimagrito 8 chili e si era visto nello specchio con «un’aria strana»): e che certa critica negò che quelli fossero romanzi con la stessa sicumera con cui ora afferma che sono gli unici suoi romanzi validi.
Ma certamente la vedova troverà manoscritti che per anni Kerouac non ha mai avuto tempo di copiare. Tra questi manoscritti la vedova troverà forse il grande inedito di questo mezzo secolo americano, un libro più o meno poliziesco che Kerouac scrisse insieme a Burroughs. La prima volta ne ha parlato Ginsberg in un’intervista:«Burroughs e Kerouac (nel 1945, ’45 o ’46) hanno scritto un gran libro poliziesco insieme, a capitoli alterni.
Non so dove sia quel libro: Kerouac ha i suoi capitoli e quelli di Burroughs sono da qualche parte tra le sue carte…». E anche Kerouac ne ha parlato in un’intervista: «Ho scritto un libro, ora nascosto sotto le piastrelle del pavimento, insieme a Burroughs. Si chiama E gli Ippopotami bollirono nelle loro tank. Gli Ippopotami. Perché una sera Burroughs e io eravamo in un bar e abbiamo sentito un notiziario che diceva: “E così gli Egiziani hanno attaccato, bla bla bla… e nel frattempo c’era un grande incendio nello zoo di Londra e il fuoco corse tra i campi e gli ippopotami sono bolliti nelle loro tank! Buonanotte a tutti!”. Ecco com’è Bill, se n’è accorto. Perché si accorge sempre di queste cose». Effettivamente Burroughs cominciò a scrivere, diciamo così professionalmente, nel 1949 (alludo a Junkie, che uscì soltanto nel 1953).
Prima aveva scritto soltanto (nel 1938) un racconto in collaborazione con Kells Elvins, in cui aveva inventato il personaggio del Dott. Benway che poi sarebbe diventato il protagonista di Pasto Nudo. Ma di nuovo, ricordare che fu Kerouac a inventare il titolo di Pasto Nudo e a suggerire il titolo di Urlo a Ginsberg sarebbe come tornar a parlare della vita comunitaria e alla comunanza di pensieri che legò i tre amici negli anni in cui convissero in quella ormai celebre casa vicino alla Columbia University; e tornar a parlare del grosso peso avuto da Kerouac – come scrittore – nella comunità.
Ginsberg non si è mai lasciato sfuggire occasione per parlare dell’influenza esercitata su di lui da Kerouac anche se Kerouac non ha mai parlato volentieri dell’influenza esercitata su di lui da Ginsberg. Sull’autobus che lo riportò a casa dopo il funerale a Lowell, Ginsberg scrisse:
«Jack il Mago nella sua tomba
a Lowell per la prima notte
quel Jack attraverso i cui occhi
vidi
smog splendore luce
oro sulle spire di Manhattan
non vedrà mai questi camini fumanti
mai più sulle statue di Maria
nel Cimitero».
Resterà questo probabilmente il più commosso ricordo di uno scrittore-poeta stritolato dalla sua società: resterà anche dopo che le nuove generazioni avranno dimenticato questa storia dei beat e tutto il resto e avranno dimenticato anche questa sua morte tragica.
Perché perfino adesso fra tanti giornali che hanno fatto il ritratto sarcastico e definitivo del suo personaggio o la stroncatura compiaciuta e conformista dei suoi libri, nessuno ha pensato al dilemma dei suoi ultimi vent’anni; soprattutto nessuno ha pensato ai lunghi minuti solitari, affondati nell’abisso non più dell’alcool ma della realtà, mentre il suo stesso sangue lo strangolava, togliendogli minuto per minuto quella vita che in tutti i suoi libri ha fatto da inafferabile protagonista in un’ambivalenza di felicità e di disperazione, di bellezza e di orrore, ma di cui Kerouac ha cantato soltanto gli slanci di apertura verso la vitalità e l’energia.
Una vita che aveva poco a che fare con quella che il mondo contemporaneo lo costringeva a vivere, fino a ricacciarlo come un animale ferito nell’agguato dell’alcool; nell’agguato di qualcosa che lo illudesse di potersi sottrarre al suo destino.
Fernanda Pivano
(da Beat Hippie Yippie, Arcana 1972)
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