“Vu cambià?”
Aggredisce ma fa la vittima. Insulta ma si sdegna se gli si fa notare il comportamento che ha. Sta lì, tra quelli che applaudono quando i profughi vengono mandati via, trasferiti, portati altrove o se scappano da dove sono accolti. E' l'anonimo rancoroso che si muove solo in branco. C'è un uso del linguaggio che lo acceca e ne radicalizza l'atteggiamento.
Bisogna purificare il linguaggio per fermare la spirale involutiva che genera piccoli e grandi mostri. Pochi anni fa a Firenze un uomo ossessionato da questo linguaggio e dalle mentalità che lo presiedeva ha ucciso due senegalesi, Modou Samb e Mor Diop, ferendone altri tre, prima di dare fine a se stesso nel garage di un mercato. Il disprezzo, infatti, porta con sé anche un'alta caricata autodistruttiva. E' una forma di affermazione malata per cui esisto se faccio male o se mi faccio del male.
Mentre è possibile allargare ad ogni livello le occasioni di incontro, di festa, di confronto per cui le parole, dato anche il contesto, assumono un rilievo cortese e fanno scoprire il volto dell'altro, bisogna pur rendersi conto che certe espressioni fanno male. Circa venticinque anni fa si pose il “problema” per i giornalisti se chiamare gli immigrati ambulanti, in genere persone di colore, “vu cumprà'” o “millo liro” e contemporaneamente ci di domandava se era più opportuno definire “neri” le persone dell'Africa subsahariana o “negri”. “Negri”, infatti, richiamava l'espressione dispregiativa del Sud Africa “nigger”. Ci si poneva almeno la domanda di fronte a termini che possono diventare clave quando si accompagnano a sostantivi come “invasione”. Si innescano infatti percorsi pericolosi come stava accadendo nella prima parte del mese di agosto in Italia.
Giusi Nicolini, sindaco di frontiera a Lampedusa, ripete una cosa essenziale: “Il nostro 'noi' per essere tale deve sempre comprendere un 'loro'”. Mercoledì 20 agosto dall'Iraq il premier Matteo Renzi ha fatto un riferimento, che merita, di essere sottolineato, su questo tema: “... consentire a chi è rifugiato di tonare a casa sua. È anche una risposta alle polemiche sterili nel nostro paese sull'immigrazione. Non vengono da noi per darci noia, ma perchè rischiano la vita”. E' vero. Dietro i viaggi della disperazione, dietro la povertà, vi sono guerre. L'averlo dimenticato utilizzando come anestetico l'espressione “clandestino” ci disumanizza e toglie intelligenza sui fenomeni storici, intelligenza che deve incontrarsi con il vissuto altrui.
Ci sono gli anonimi rancorosi e coloro che sono resi anonimi dal naufragio. Un libro di Giuseppe Catozzella, 'Non dirmi che hai paura' (Feltrinelli) racconta la storia di Samia Yusuf Omar, atleta somala che partecipò alle olimpiadi di Pechino del 2008 e che è poi morta nel naufragio di una carretta del mare, mentre cercava di raggiungere l'Italia. Dai 200 metri femminili in Cina ai mancati 8 mila chilometri che vanno da Mogadiscio alla frontiera del tricolore.
C'è un'Europa che insiste a “congedarsi dalla storia” (come rilevava Benedetto XVI) e che si nega di fronte a 'Mare nostrum', operazione che ha ridato alla penisola l'orgoglio di una parola positiva: salvare. Salvare, dando un nome a chi è salvato e un'identità migliore a noi stessi.