‘Ferragosto’ di Daria Menicanti. Madame Centaure e i miraggi della città deserta
VEDI IL VIDEO Documentario sul filosofo Giulio Preti (con cinque poesie a lui dedicate di Daria Menicanti, che fu sua moglie)
Firenze, 15 agosto 2012 – Daria carissima, come stai? Ma che fine hai fatto? È da tempo (da tanto tempo, tanto per davvero) che mancavo di tue notizie, di sicuro non per tua colpa, dal momento che troppo forte è stata, è e sempre sarà la nostra amicizia. Ma neppure io, in realtà, sono stato in grado di dartene, di notizie: notizie e aggiornamenti costanti, voglio dire, così puntuali e frequenti come era nostra abitudine, affidati alla scrittura di lettere non meno che al filo del telefono.
È stata la pubblicazione di un libro che con passione ed acribia critica Matteo M. Vecchio ha di recente allestito (D. Menicanti, La vita è un dito, Giuliano Ladolfi Editore, antologia poi fattasi a sorpresa opera omnia della tua produzione in versi), a riportarmi a noi, al nostro rapporto così intenso e senza ombre, anche se sempre svoltosi, rigorosamente e un po’ paradossalmente, a distanza: senza mai stringerci la mano o meglio senza mai abbracciarci, presumendo di conoscerci già bene, e forse meglio che in ogni altro modo, proprio così, e finendo col delegare a qualche classica foto da epistolografia della lontananza o ad un casuale o medianico riconoscimento televisivo a tarda notte in un TG (era, lo ricordo bene, un convegno fiorentino su «Solaria», e la datazione potrebbe quindi essere esatta) i lineamenti salienti della nostra fisicità differita, altrimenti dislocata e risolta.
È stata dunque questa bella antologia di Vecchio a reimmettermi nel nostro dialogo, la cui parte più qualificata e profonda, inutile dirlo, era e resta quella della tua poesia: versi che fin dalla prima lettura che ebbi occasione di farne su uno dei tuoi libri forti, Poesie per un passante, ha sempre giocato su di me un potere attrattivo e fascinatorio notevole. Tanto è vero che da allora non ti ho più lasciata; tanto è vero che, oltre che tuo amico, sono stato uno dei tuo critici, e con mia massima soddisfazione il critico cui decidesti un giorno, attribuendomi un privilegio inatteso, di affidare la presentazione di un altro dei tuoi libri più felici e decisivi: quel Ferragosto nel quale ad ogni pagina potevo ritrovare all’epoca, a livelli di distillata esemplarità e assolutezza, quell’idea di poesia di cui tanto parlavamo assieme, che tu realizzavi scrivendo e nella quale io mi ritrovavo.
E fu in effetti attraverso le poesie di Ferragosto, nel 1986, che potei indicare con maggiore chiarezza di quanto prima fossi riuscito a fare un mio modo di leggerti e di apprezzarti: Daria Menicanti come una poetessa dalle «belle maniere» (la civiltà basata su un allargato ambiente di maestri e compagni di cui eri portavoce umile e scrupolosa pure in minimi eventi della quotidianità) che attraverso quelle sapide e concentrate «belle maniere», non necessariamente pure convenzioni senza peso, lanciava in realtà messaggi tutt’altro che innocui o rassicuranti, anzi singolarmente implicanti e spregiudicati: originali fino ai ribaltamenti più rivelatori, fino alle oltranze e agli scandali di cui l’arte è capace; fino agli sbaraglianti «fuori programma», appunto, in cui la pur necessaria e per certi aspetti inderogabile consapevolezza di chi scrive deve per forza di cose cedere a quella verità rilkiana che, testimoniando dell’ispirazione e delle sue regole, prevede a un certo punto una mano che inizia a muoversi senza sapere perché, dirigendosi non si sa verso quali zone e verso quali traguardi. Era dentro la tua poesia, insomma, intimamente, che anche il tuo filosofico, banfiano e pretiano «dubbio» trionfava: un dubbio culturalmente maturato e fattosi perfino condivisione biografica che deragliava inaspettatamente, per via di scrittura, in più alte e complesse forme di conoscenza che sfarinavano la sua granitica e molecolare invadenza in ogni esistenziale accadimento.
Questa idea di poesia double face che nel tuo lavoro si celebra mi sconcerta e mi attrae, Daria, e sarei ancora disposto a citare per te Djuna Barnes e il suo splendido, cangiante nightwood da «labbra insanguinate» di progenitori selvaggi, da ibridi e sorprese da nuova creazione: da antinaturalistici incroci, vorrei dire, che a ben vedere veicolano un’altra delle modalità comportamentistiche o linee portanti della tua poesia, della tua stessa protratta dedizione ai suoi lucidi ed oscuri misteri. E mi viene fatto adesso di paragonarti, tu e le tue «belle maniere», ad un’artista del canto oltremodo grande ed esemplare come Magda Olivero (anche lei come te, ormai ultracentenaria, vive a Milano), che a sua insaputa, attraverso la sua arte, ha saputo essere una strepitosa e perfetta Manon pucciniana pur non rinunciando mai – neppure all’Arena di Verona, penso, all’inizio di una serata memorabile con il giovane Placido Domingo di cui ci è rimasta una stupefacente testimonianza sonora – a farsi il segno della croce prima di entrare in scena. Una signora diciamo pure borghese, quanto mai capace di educazione e apprese buone creanze diventava, grazie al canto, la Manon di Puccini e nient’altro: per prodigio, appunto, nonostante la sua arte fatta anche di studio tenacissimo, tecnica insuperata e continua volontà perfezionante.
Parlavo ancora, esprimendomi sugli esiti di Ferragosto, di «francescanesimo hard». E in effetti il propiziatorio segno di croce adottato dall’Olivero nel tuo universo laico, solido e filosoficamente nutrito non trova posto. Ma ciò non ha impedito affatto alla tua poesia, agli antipodi mettiamo rispetto al magnifico creaturismo di Betocchi, di aprirsi a una dimensione creaturale: una dimensione sostanzialmente antiumanistica, incircoscritta ed ecumenica, tutta nel segno del realismo che più conta e di una smaliziata, ironica esperienza di come va il mondo. E anche in questa apertura professata in re, all’interno delle tue invenzioni e non fuori di esse o a margine, Daria, altro che «care cose» (citandoti), altro che «vezzi e zuccheri» (citandomi ancora dalla prefazione di Ferragosto)!
Oggi, una volta rilette le poesie che compongono questo La vita è un dito, avrei voluto rileggere anche le molte lettere che mi scrivevi e che disordinatamente ma integralmente conservo, ma non l’ho fatto: ho resistito alla tentazione e ho preferito invece ricordare qui, in tua compagnia e in tuo onore, quanto ti scrissi in una lettera diventata aperta che, manco a dirlo, in linea con i nostri interrogativi e nondimeno con le nostre imperturbabili fiducie nella poesia, si intitolava Essere cavallo. La lettera era occasionata da una tua antologia personale, e trattandosi anche oggi di un’antologia, sia pure curata da altri, questa sorta di lettera al quadrato o lettera nella lettera, per quanto datata 9 ottobre 1986, mi appare suggestivamente in carattere. Ed eccone il testo:
«Cara Daria, Daria carissima, grazie dell’antologia, bestiario e “piantario” assieme. Il titolo che hai scelto, Altri amici, è tutto tuo: è giusto, ti rispecchia fedelmente come la raccolta a cui presiede. Ma ho fatto subito anch’io, da lettore innamorato dei tuoi versi, la mia antologia, e ho selezionato, scelta più personale non si può, due sole poesie. Mi sono interessate, oggi giovedì 9 ottobre 1986, Andrea cavallo e soprattutto quell’Essere cavallo, per certi aspetti anticipo della Madame Centaure che dà mirabilmente il via al tuo più bel libro, Ferragosto. È un desiderio in un titolo, Essere cavallo, un sogno, né più né meno di quanto avveniva nella serie ottativa a suggello dell’antica Riviere di Montale; con la differenza che tu, fondamentalmente, vuoi essere cavallo e basta, e sai di esserlo a tutti gli effetti, per accertate discendenze. Vuoi essere, però, un cavallo “civile”, “regolarmente iscritto”, per battere i tuoi zoccoli. Meglio San Siro o Piazza Duomo? Alla domanda rispondono i testi che scrivi.
Non so, d’altra parte, se l’Andrea del primo componimento scelto sia rimasto completamente soddisfatto dell’identificazione con un gentleman che hai autorizzato con sicurezza per lui. Ti dico solo che, nel caso la cosa non lo avesse perlomeno non irritato, Andrea starebbe con te, con me, con l’Eliot che criticava in tutti noi l’attaccamento agli «oggetti creati». La stigmatizzazione non esclude il fascino: si limita a complicare, a complicare positivamente. E la tua poesia (hai fatto benissimo a intitolare questa raccolta Altri amici, ne sono convinto) nasce da qui, da una frizione-base che la firma in maniera indelebile, che non si può sbagliare. “Ognuno riconosce i suoi – ricordi? –, e i mostri di quel tipo riconosceranno quelli e non altri mostri”».
Ti salutavo con gratitudine, allora, confondendo amichevolmente mostri con mostri e ancora tra quei mostri distinguendo: per via di possibili agnizioni, ad ogni modo, per via di comunicazioni attivabili. Ma adesso, come la manzoniana Lucia che un giorno per lettera mi citasti, con quella decisa movenza affidata a una parola che pure alcuni dei tuoi versi raccolti riecheggiano, non hai che da dire con confidenza al tuo nuovo lettore: «Eccomi». Di certo a quel nuovo lettore piacerai: semplicemente perché sei grande, Daria, e per sempre, e non solo per il tuo affezionatissimo
Marco Marchi
Madame Centaure
Mansueta e pigra come lo è ogni femmina
se non ha liti in corso, Madame
Centaure per la piazza deserta
procede al trotto. Posa sul selciato
delicata gli zoccoli, lucendo
solleva impudica la coda di seta.
Sotto il sole d'agosto la città
per pochi superstiti improvvisa
tali eleganze, tali allucinazioni
Daria Menicanti
(da Ferragosto, Lunarionuovo 1986)
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