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Compleanno Loria (Carpi, Modena, 17 novembre 1902). Tre poesie dal ‘Bestiario’

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Arturo Loria

Firenze, 17 novembre 2012 – Per gradi la narrativa dell'anomalo scrittore solariano Arturo Loria, soprattutto nei racconti dell’importante terza raccolta La scuola di ballo, del 1932, si era accinta a semplificare i suoi iniziali apparati scenografici e manieristici, avventurosi e picareschi, a favore di una intensità della pagina aliena da ogni effettismo, da ogni sospetta forma di decorazione.

Una deliberata, mirata normalizzazione pseudo-realistica del narrare si era innescata. I guitti, gli angeli precipitati del Cieco e la Bellona e di Fannias Ventosca avevano ormai dismesso la loro esteriorità esuberante, da parata; i loro impilotabili vagabondaggi avventurosi, da principi e da zingari, si erano trasformati in itinerari verticali spietatamente interiorizzati, autoinquisitoriali, in linea con una nuova, più esigente tensione dello scrittore a mettersi a nudo: per «scendere – come Montale parlando di Loria a suo tempo suggerì – nella regione che sola conta: quella del cuore umano».

La crisi dello scrittore e la sua paralizzante ossessione scrittoria si rivelano per la prima volta proprio in occasione del conferimento del prestigioso Premio romano dell’«Italia letteraria» intitolato a Umberto Fracchia, nel 1933: con uno sbaragliante «momento triste» (così Loria commenta la sua festeggiatissima affermazione consacrante), una continuità di immagine e di esercizio bruscamente si interrompe. Loria continuerà ad abitare a Firenze, a vivere e frequentare i suoi amici negli spazi culturalmente qualificati e storicamente cangianti di una città, come pure a pubblicare sulle sue altrettanto qualificate riviste (dalla bonsantiana «Letteratura» ad «Argomenti» di Carocci, da «Pègaso» e «Pan» di Ugo Ojetti all’inaugurato «Ponte» di Calamandrei), ma comincerà a sentirsi e a presentarsi presso gli altri come l’«erede di sé stesso»: un sopravvissuto scrittore «disperso e inascoltato», attanagliato dalla sfiducia nei propri mezzi e dal silenzio, per il quale ripensare al passato, alla sua «vita scritta» di secondo grado un tempo realizzata e così radiosamente accolta, si configura sempre di più nei termini angosciosi di un colpevolizzante ricordo, di un rimorso volto giorno dopo giorno ad aggravarsi e ferire.

Negli anni Cinquanta, mentre la morte incombe su di lui, lo scrittore si volge ormai di preferenza, sia pure con esiti espressivi di diversa remuneratività, al mondo antieroico, naturale ed ermeticamente sigillato, inesorabilmente vessatorio e vessato, degli animali. Nel nome della chiarezza, le virate in ambiti classici e formalistici, a suo tempo emblematizzate da un pubblicato dramma mitologico-satiresco come Endymione e ora rese visibili dal moderatismo colloquiale-oraziano di una semplice comunicazione epistolare, danno luogo alla composizione di sobrie, quintessenziali moralità di tipo favolistico e, insieme, all’infittirsi di dolenti composizioni in versi. Dall’antiumanistico, chiuso mondo degli animali, dei più tellurici e quasi invisibili animali, dai più ignorati e nascosti, dai più perseguitati e bistrattati: da questo ultimo mondo dell’ingiustizia e dell’assurdo, da un universo di senza parola, Loria ci si profila ancora, né più né meno che in un antico, mirabile racconto intitolato Il falco, come uno scrittore in cerca di «calore», alla ricerca della vita.

Pure in accezione di scritture terminali sufficientemente parallele, analogamente concentrate e tormentate (l’assillo è testimoniato dall’impressionante congerie di redazioni e redazioni accumulate), sul Loria illuminato, bonsantiano delle Settanta favole sopravanza di sicuro l’eccentrico, recluso ed elegantissimo poeta del Bestiario: un autore civilmente inutilizzabile, esibitamente fuori del tempo e delle sue cronache, contratto, tragicamente lirico e differito, dedito ad altre vite, tanto da far pensare a Schlegel – «Come una piccola opera d’arte, un frammento deve essere totalmente staccato dal mondo circostante, e chiuso su se stesso come un istrice» –, o al testo stesso di tipo poetico secondo Derrida: «chiuso a riccio, irto di spine, vulnerabile e pericoloso, calcolatore e inetto (si espone all’incidente proprio perché, sentendo il pericolo sull’autostrada, si appallottola)».

Marco Marchi

Da Il bestiario

L’aquila

Adesso, puoi vedermi, prigioniera
in questa gabbia, dove non apro l’ali
divenute pesanti. Vo morendo
di giorno in giorno, senza l’altezza,
e più non spero libertà di volo
tra le vette e le nevi. Mi consumo,
torva, in questo martirio che ti concede
di fissarmi negli occhi dilavati.
Non vi scorgi la potenza grifagna
che ora si ritorce nel mio buio e m’acceca?
Meglio per te se giungevi a scoprirmi
entro il mio nido: m’avresti capita
nella mia soggezione alla natura.
Qui, dove vorrei finire ignorata,
lasciando brandelli del mio cibo,
riesco a darmi fierezza araldica;
ma poco io reggo allo sforzo
se non ritrovo le gioie e l’orgoglio
di un’antica rapina nel cielo della valle.
Oh, sento il peso caldo tra gli artigli,
ritornano le voci, i gridi, gli innocui spari,
mentre m’innalzo in fuga vittoriosa!
Eccomi a te! Imitami sul tuo foglio
da mostrare al guerresco Imperatore
che abbisogna di un simbolo rapace,
sullo scudo, sui marmi, sulle aste.

Il fenicottero

Steccuto fenicottero
che altero lasci cadere
bambagia e paglia trita
sul sughero dipinto a far palude,
a te fu concesso mantenere
l’esterne sostanze del corpo
e la sua vera forma
per ricordare a chi guarda
e forse temeva di perderti a prova
che sono eterne le forme di natura.
Mi basta porre un vivo a tuo confronto
perch’io torni sicuro della legge.
Ma vivo tu già sei alla mente
bramosa d’entrare in altra vita,
anche se appare finta in atto fisso
e destinata a perdersi col tempo.
Ora, tu pure ricordi cielo
e acqua ferma a suo specchio,
e doni al passato più luce
per reggere un volo futuro.

Il pipistrello

Quali strani disegni fa il tuo volo!
Ad ogni punto ricomincia nuovo,
secondando il difetto dell’istante.
Fissarlo ora mi provo con la penna
sul foglio tinto dalla sera rossa.
Un tratto ad ali rapide, impazzite;
una caduta a mo’ di foglia; un farfallare
nero e sfibrato incontro a me che guardo;
un cerchio in alto, d’ambigua natura
a smarrire tra i solchi delle rondini
l’ansiosa trina che torna a svelarti;
un calare improvviso (donne gridano
nell’orto accanto, le mani sui capelli);
un prillo contro il cielo sceso in ombra,
una fuga da lato, a sbandamento…
Infine, sei scomparso nella notte,
e sul mio foglio arabescato è buio.

Arturo Loria 

(da Il bestiario, 1959)

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