Giovani per davvero: Federico Berlincioni
VEDI IL VIDEO Io scrivo poesie. Federico Berlincioni ed altri poeti a Castelfiorentino (2005)
Firenze, 11 dicembre 2012 – Una volta, parlando di lui e del suo precoce talento, un giornale intitolò: «Un poeta quattordicenne riesce a incantare Mario Luzi». Rafforzo subito l’indicazione allora emersa con una testimonianza personale: quella di un Luzi che, sopraggiunto ad una manifestazione culturale nei pressi di Firenze alla quale era atteso, sentendo in distanza leggere poesie, stentò a credere che si potesse trattare – dalla lettura stessa di quei testi, da quelle musicali parole che, così seducenti e autorevoli, nitide e precise giungevano da lontano – di un ragazzo.
Perché Federico Berlincioni – il giovane e pluripremiato autore di Il rumore del silenzio e Dentro me avanza, libri ambedue pubblicati dall'empolese Ibiskos-Ulivieri – continua ancor oggi a incantare? Perché come ogni vero poeta è un essere sufficientemente strano, separato e con gli altri, fuori del tempo e in ogni tempo, concentrato in se stesso anche quando rivolto all’infinito, teso costantemente a qualcosa di unitario, di armonico e originario: di «musicale», come lui stesso direbbe.
Rispetto al suo primo libro, nientemeno che del 2000, Federico è cresciuto: si è fatto più ricco e complesso, visibilizzando anche nei modi di una storicizzabile evoluzione la sua certa anagrafe artistica. E' cambiato soprattutto, nei suoi testi più recenti (penso anche ai quindici sonetti inclusi nel romanzo di Riccardo Nencini L’imperfetto assoluto, edito da Mauro Pagliai), l’atteggiamento che chi scrive ha con la propria scrittura, fino a una lirica di Dentro me avanza considerabile in questo senso esemplare, Lo scriver mio nemico, dove si può leggere: «Adesso, stretto ho il cuore in tenaglia / che sono tuo servo esanime e ne so il fio, / non più diletto né rifugio, ma canaglia, / vizio che placo invano, sei nemico mio».
Il «davvero giovane» Federico Berlincioni – fiorentino, classe 1987, maturità classica al Machiavelli, carriera universitaria in Filosofia e un impiego in banca –, facendosi adulto, si è fatto «filosofico»: non si consegna più anima e corpo alla creatura che da sempre vive al suo fianco, ma dubita di essa, la interroga, tende – volendola conoscere e amare fino in fondo – a metterla alle strette, facendo di lei, la sospettata e forse ora più che mai innocente poesia, la depositaria di ogni forma di verità in un mondo avvertito, tra i lacci del dolore e della costrizione, regno del falso e del vuoto.
Ricordo che una delle prime domande che feci a Federico quando, grazie ad amici comuni, ci incontrammo (eravamo a Castelfiorentino, a quel «Premio Letterario Castelfiorentino» che per primo lo ha rivelato) fu questa: «Chi è il tuo poeta preferito?». Federico non ebbe allora esitazioni a rispondere, nonostante la comprensibile timidezza di ragazzino neppure tredicenne che gli fece pronunciare quel nome ad occhi bassi: «Leopardi».
Marco Marchi
Le scale
Non so quanta gente per la mia strada
ho trovato a vedermi passare,
chi al corrimano che mi aspettava,
o ancora intento a salire le scale.
E tante ne ho viste corrermi incontro
altre in silenzio passarmi di lato,
certe per ogni gradino d’intorno,
altre con cui non ho mai parlato.
Beato chi seppe allungare il suo passo,
tutte le foglie e chi stette a guardarle
cadere dai rami in ogni momento.
Questo è il peso che aggrava le spalle
di noi strana gente in fila dal basso,
lieta a salire scalini morendo.
Canzonetta ingenua
Che servon le foglie
a piangere perle
finché ottobre le toglie
dai rami di verde,
Che servono i rami
a dare a quel vento
la voce e le mani,
che spira d’inverno,
Che sai serve l’erba
a ubriacare d’amore
gli amanti su quella
distesi per ore,
Che servono in alto
le nuvole e il bianco
a inghiottir lo sguardo
nel cielo di fianco,
Che poi serve il cielo
a spostare le stelle
sì lento e leggero
e chi è sotto a quelle,
Che servon le stelle
a chi ora le guarda,
con gli occhi a vederle
sul cielo di carta,
Che quelle cadenti
poi servono e basta
a aprire radenti
la notte rimasta,
Che servono i sassi
solo a rallegrarci,
lì fermi a non farsi
che prendere a calci,
Che servon le case
a scurir le strade
con l’ombre quadrate
che accorcia l’estate,
Che serve la pioggia
a battere il tetto
d’un tocco ogni goccia
che sotto la sento,
Che servono i muri
a regger le spalle
ai tizi insicuri,
le pietre a toccarle,
Che servono i prati
che allargano gli occhi
a correrli in parti
che vedi e non tocchi,
Che serve la terra
solo a calpestarla,
e non si ribella
ma soffre e non parla,
Che servono i fiori
a dire che t’amo,
a far cader fuori
ciò che proviamo.
Che poi serve l’aria
a occupare lo spazio
che intorno s’adagia
tra un vuoto e un altro,
Che servono infine
gli alberi e i boschi
a farci sentire
un po' meno grossi,
direi a un bambino
seduto per terra,
distratto perfino
dall’ombre che afferra.
Ma che non gli dica
chi lo terrà accanto
che non serve mica
sognare ogni tanto.
Se lui col ditino
disegna il contorno
di cos’è vicino
a quello ch’a intorno.
Non ditegli mai
scherzandoci un poco:
“Tu non troverai
né adesso né dopo
ie cose che scrisse,
senz’alcun riguardo,
soltanto un triste
poeta bugiardo”.
Come sto
Sto come un fuoco che al gelo non bruci
crepita ed arde però non riscalda,
come una giostra che va senza luci
senza nessuno d’intorno che guarda.
Sto come un cieco tra uomini muti
che nel silenzio sorride e non parla,
come una lama di luce sui muri
senza la forma di un’ombra a toccarla.
Sto come un fermo, assolato giardino
pieno di pruni da tutte le parti,
come una fiamma che il freddo contorni,
ora che al buio non posso baciarti,
e starti di notte talmente vicino
da avere persino i tuoi sogni se dormi.
Federico Berlincioni
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