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Per Giovanna Bemporad. Omero, Ulisse e la madre

VEDI I VIDEO Giovanna Bemporad dice e commenta versi dell' "Odissea" da lei tradotta , Poesia senza trucchi

Giovanna Bemporad

Firenze, 7 febbraio 2013 – Dalla «petrosa Itaca» del sonetto foscoliano di ieri, attraverso Omero, Ulisse ancora in viaggio e il tema materno, ricordando Giovanna Bemporad,  pregevole poetessa e memorabile traduttrice dell'Odissea, amica di Pasolini e Ungaretti, morta nella sua casa romana il 6 gennaio scorso.

Di origini ebraico-ferraresi, Giovanna Bemporad ha affidato la propria poesia ad un unico, mitico volume intitolato Esercizi, apparso per la prima volta nel 1948, riproposto in seguito da Garzanti e giunto di recente a due edizioni ampliate di consuntivo, comprendenti le poesie della vecchiaia. Ha tradotto, oltre  che Omero,  anche dall'Eneide di Virgilio e, integralmente, l'Elettra di Hugo von Hofmannsthal.

E' stata sepolta a Fermo, nelle Marche. Un'intensa rievocazione del suo anticonformistico e decisivo rapporto intellettuale instaurato durante gli anni scolastici bolognesi con il giovane Pier Paolo Pasolini (sullo sfondo, oltre a Bologna, un'estiva, assolata ed esaltante Casarsa friulana tra alta cultura letteraria e iniziazione politica) si legge nella Vita di Pasolini di Enzo Siciliano.

Si noti infine come il testo recitato dalla Bemporad risulti in più punti variante rispetto al testo a stampa riprodotto, secondo quella instabilità di lezione nel tradurre Omero cui la traduttrice si riferisce nei commenti conclusivi del primo video: instabilità che provoca peraltro, come ancora il filmato documenta, un inciampo nella bella lettura a memoria del brano.

Marco Marchi

Da Odissea, libro XI

Quando viene l’estate o il ricco autunno,
per lui bassi giacigli di ammucchiate
foglie si fanno ovunque, sul declivio
del florido vigneto; e qui egli giace
dolente, accresce in cuore la sua pena
sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza
dura gli è sopra. Anch’io cosi mi spensi,
vinta dal fato; non mi colse e uccise
nelle mie stanze coi suoi miri dardi
l’infallibile Artemide, e un malanno
non mi assalì, di quelli che dal corpo
con lento logorio strappano l’anima:
ma il rimpianto di te, nobile Ulisse,
del tuo senno e del tuo tenero affetto
mi ha tolto il bene della dolce vita”.
Disse; io tentai, con l’animo in tumulto,
la madre morta stringere al mio petto.
Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia
di afferrarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile ad ombra o a sogno;
sempre più mi cresceva in cuore acuto
strazio, e a lei mi rivolsi supplicando:
“Madre, perché non resti, se io mi struggo
di abbracciarti, così che entrambi al collo
gettandoci le braccia, anche nell’Ade,
gustiamo l’acre voluttà del pianto?
O forse a me questo fantasma l’alta
Persefone ha mandato, perch’io debba
più forte ancora piangere e dolermi?
Dissi; e con voce fioca mi rispose
l’augusta madre: “Ahi, figlio mio. tra gli uomini
tutti il più sventurato, non la figlia
di Giove, non Persefone ti inganna:
si muta in questa forma. quando muore,
l’uomo mortale; i tendini disfatti
non congiungono più le carni e le ossa,
tutto divora l’impetuosa furia
del fuoco ardente, appena esce la vita
dalle ossa bianche; vola via per l’aria
l’anima, e si dilegua come un sogno.
Ma tu tendi al più presto a ritornare
verso la luce, e tutto serba in mente
per ridirlo, più tardi, alla tua sposa”.

Omero

(da Odissea, traduzione di G. Bemporad, Le Lettere)

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