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Anniversario D’Annunzio (Gardone Riviera, 1 marzo 1938). ‘Qui giacciono i miei cani’

VEDI I VIDEO "Qui giacciono i miei cani" , "Gabriele D'Annunzio nella luce dell'immortalità", filmato celebrativo dell'Istituto Nazionale Luce, 1938)

Gabriele D'Annunzio

Firenze, 1 marzo 2013  Instancabile «artefice solitario», postero notturno di se stesso nuovamente disposto a confidenze automitografiche, nei tardi anni del Vittoriale D’Annunzio tornerà a ricostruire – come già alla Capponcina – l’intero suo Universo, a sentirsene al centro, a seguitare a «vivere, studiosamente voluttuosamente sprezzantemente: nel tempo medesimo più mostruoso del mostro e lineare come la perfezione».

Tornerà a trovare, per sé e per quel mondo che è diventato pure per via di disagio, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila, diciture di consuntivo e di saluto da apporvi: un epitaffio tra vita e letteratura, un tetrastico recuperato e ricomposto anch’esso, materialmente nato e rintracciato a margine di versi altrui: «Tutta la vita è senza mutamento. / Ha un solo volto la malinconia. / Il pensiere ha per cima la follia. / E l’amore è legato al tradimento».

«Alla ignorante Simonetta – si annota nel Libro segreto, studiando un antiquariale, raro «piattello» persiano – avevo raccontato nei primi giorni la storia di Maghnun e di Leila, perché essa accogliesse il suo nome cubiculare. [...] Di meditazione in meditazione, di sogno in sogno, assaporo divinamente la mia stessa solitudine.  sono beato di sentirmi solo, di essere solo».

Si paragonano voluttuosamente, in assenza di Leila, chicchi d’uva di grappoli donati, si tornano a rivedere, numerare e nominare, le stelle, la collezione del firmamento, e se ne fa la cronaca affidandosi anche ad eccentricità grafiche come la minuscola con spaziatura raddoppiata dopo il punto fermo, tra futurismo ed arcaismo, aggiornamento storiografico a tutti i costi ed egotistica, solipsistica volontà di stupire: «Io ha contato stanotte tutte le stelle di prima grandezza: le Chiare.  noverate le ho come i miei cani nel mio canile: ciascuna per l’antico suo nome».

Persino l’«amica penultima» – penultima al pari della «ventura» di un titolo – potrà oscenamente e citazionalmente essere ribattezzata, prima che si rifaccia viva, attingendo, con gioco verbale ben poco erudito nella sua monotematica sostanza da anatomia adorata fatta persona, da un curioso documento papale del 1233: una ricevuta commerciale in cui compare il nome del banchiere pontificio Angiolieri Solafica di SienaD’Annunzio non può non comprendere, deve possedere.

«È notte.  sono solo.  a chi parlo?». Firenze e la Capponcina non sono che un ricordo. D’Annunzio, chino sulle carte, con i denti guasti suoi e della Storia che lo affliggono, sta per uscire di scena; Paolo – dopo aver molto vegliato e sofferto, per l’amore e la gloria, come in Dante e come in un melodramma del roveretano Riccardo Zandonai – è senza Francesca, ma le stelle tremano ancora. Nell’imminenza della scomparsa di un vero poeta, di una presenza protratta ed essenziale nelle nostre lettere, la poesia in data 31 ottobre 1935, con i versi di Qui giacciono i miei cani, ricompensa.

Marco Marchi

Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.

Gabriele D’Annunzio 

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