Le mitiche riviere di Montale
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Firenze, 16 gennaio 2014 – Montale oppone alla scelta rivoluzionaria, radicalmente e potentemente rivoluzionaria di Ungaretti un libro d’esordio come Ossi di seppia: un libro che un critico – Pier Vincenzo Mengaldo – ha definito documento di «conservatorismo linguistico», intendendo alludere con questo ad una poesia che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente, che con quella tradizione intrattiene forti legami.
Potremmo affermare – semplificando e ad esempio ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che Ungaretti ha scritto – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia, esibisce al contrario la sua derivazione, la sua dipendenza di tipo storico-linguistico.
Il linguaggio che Montale adotta nella sua prima raccolta risulta in effetti fortemente intriso – un testo antico, biograficamente illustrativo ed emblematicamente risassuntivo come Riviere lo dimostra benissimo – di lezioni soprattutto dannunziane, ma anche pascoliane e carducciane: di un linguaggio cioè che attraverso la possibilità di cogliere una storia della lingua della poesia italiana ad altezza primonovecentesca sussume anche la tradizione più antica. Se Ungaretti è fiducioso di una sorta di solitudine del poeta, Montale, per esprimere la sua originalità ed affermarla, sente il bisogno di riferirsi ad una lingua poetica formalmente concresciuta, giunta a lui con il suo forte e talvolta gravoso bagaglio di scelte, di responsabilità, di strumenti espressivi già messi a punto e sperimentati, di possibilità culturali ed espressive sondate.
Ma Montale adotta una sorta di continuità linguistica per effettuare il suo attraversamento critico, per attuare il suo rovesciamento ideologico. E proprio nel 1925, l’anno di pubblicazione degli Ossi di seppia, sul periodico torinese «Il Baretti» Montale dichiara, rivendicando al proprio operato consapevolezze: «Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che per rifar la gente».
Marco Marchi
Riviere
Riviere,
bastano pochi stocchi d'erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
nei giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.
Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s'arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l'acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e ciclo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.
Oh allora sballottati
come l'osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata...
Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.
Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d'acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi...
Ah, potevo
credervi un giorno o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all'agonia d'ogni essere.
Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d'unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia; rifarsi;
non mancar più.
Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v'investe, riviere,
rifiorire!
Eugenio Montale
(da Ossi di seppia, 1925)
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