L’America di Andretti
Forse è inevitabile.
Pensando all'America, mi viene in mente Mario Andretti.
Piedone.
Lo so. E' banale da scrivere, ma è vero.
Piloti così, non ne nascono più.
Non per colpa di chi guida oggi.
E' cambiato il contesto, è cambiata la cultura, è cambiato il modo stesso di vivere ed interpretare le corse.
E buonanotte.
Ma Andretti!
Oriundo italiano. Dell'Istria.
Ero bambino quando vinse la 500 Miglia di Indianapolis.
Poi seppi che Enzo Ferrari stravedeva per lui, ma Mario, che pure la Rossa la guidava volentieri, aveva troppi impegni negli States per dedicarsi in esclusiva alla F1.
Quando lo fece, lo fece con Chapman e con la Lotus. Il mondiale del 1978.
Andretti!
Lo incontrai quella volta che venne a sostituire Tambay per un Gp a Monza, credo fosse il 1982, sono in viaggio e vado a memoria.
L'ho già raccontato. Passo da Fiorano, andò a tavola con il Drake, mangiò due piatti di tortelloni, provò la macchina sul circuito di casa, si spostò in Brianza e il sabato fece la pole.
Poi l'ho rivisto, nei panni di padre, a Donington nel 1993. Suo figlio Michael non stava facendo una gran figura in McLaren, ma Mario diede una spiegazione che valeva un articolo di cento righe: beh, mi disse, ma tu lo sai chi è il compagno di squadra di mio figlio?
E infatti era Ayrton Senna.
Andretti!
Mi disse anche, quella volta lì a Donington, che dopo aver vinto la 500 Miglia di Indy e il mondiale di F1 si sarebbe fatto tagliare un mignolo, pur di vincere anche la 24 Ore di Le Mans.
Ha ancora il mignolo, Piedone.
Credo gli dispiaccia di avercelo ancora.
E appunto piloti così non ne nascono più.